Le recensioni di Orazio Antonio Bologna

M A L A C A R N E di PATRIZIA STEFANELLI

 P R E F A Z I O N E  – seconda parte

La silloge Malacarne

Pochi lettori, quando hanno tra le mani un libro di vera e autentica poesia, che nasce dal profondo, dopo un graffiante scavo interiore, si soffermano sul lungo lavorio, sotteso alla ricerca del tema, alla stesura del testo, alla ricerca affannosa dell’idonea espressione lessematica, al tormento, spesso insoddisfatto, dell’armonia contenuta nel singolo verso in particolare e, in generale, nell’insieme delle strofe, che  compongono il carme, a volte d’una manciatina di versi appena. Dopo le brillanti esperienze del XIX e del XX sec., incarnate in Giovanni Pascoli, Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba, Eugenio Montale e Mario Luzi, i lunghi poemi sono stati definitivamente abbandonati e confinati nel passato e nessuno osa riesumarli, per non incorrere in aspre critiche e violenti biasimi: oggi, infatti, si desidera un prodotto di facile consumo, alla portata di tutti, senza nessun impegno né politico, né morale, né religioso. Si ripetono fino alla noia gli stessi motivi, proposti nei modi più strani, che non sono né originali né innovativi, come presumono gli autori. In alcuni di questi, e non sono pochi, manca addirittura la conoscenza e l’uso corretto della lingua italiana, strumento indispensabile per veicolare al lettore le proprie sensazioni e le proprie esperienze. Ora, però, bisogna volgere l’attenzione a un nuovo libro di poesia, che esce dalla penna, dalla riflessione e dalla sensibilità di una raffinata cultrice della parola e del verso.

Il pregevole florilegio, del quale qui si tracciano per sommi capi le linee portanti, come già si è detto, è Malacarne, che ripete il titolo del carme introduttivo e costituisce, nel contempo, il programma, scrupolosamente perseguito all’Autrice, non nuova a conferire alle sue sillogi titoli eloquenti e programmatici, come Rosanero, uno dei precedenti volumi, he ha avuto un ambito riconoscimento nel Certamen pollinare Poeticum. Malacarne nella parlata locale, dove la Stefanelli vive e opera, non è un epiteto del quale andare orgogliosi: si affibbia, di solito, a persone infide, intrattabili, scostanti, che, nel loro intimo non nutrono nessun sentimento umano.

A una prima lettura il testo di ogni singola lirica lascia stupiti coloro i quali si accostano a penetrare l’intima profondità celata nei singoli lessemi e nei ben architettati sintagmi, che confluiscono in strofe di varia lunghezza e intensità di contenuto. Il costante labor limae, cui ha sottoposto la tanto breve quanto intensa silloge, lungi dal soffocare l’ispirazione, concretizza e incarna quell’ideale, che l’Autrice ha vagheggiato e inseguito senza sosta. Nel lungo e paziente lavorio di rifinitura nasceva un nuovo carme, completamente differente dalla stesura originaria, finché l’innato senso estetico non le ha imposto di porre fine alla riflessione e alla rielaborazione, per consegnare al lettore esigente un frutto maturo, duraturo come il bronzo e la maestosità delle piramidi, che, secondo un’acuta osservazione di Orazio, sfidano ancora i secoli e destano attonita ammirazione.

Ai temi triti, adoperati con stucchevole ripetizione da verseggiatori poco esperti, la Stefanelli sostituisce subito problemi di grande rilevanza; affronta subito, senza preamboli, argomenti, che penetrano dritti l’interno dell’uomo; riveste di parole comuni concetti, che solo pochi eletti riescono a percepirne la portata. L’involucro esterno, costituito di suoni, di parole e di frasi più o meno collegate tra loro, serve alla Poetessa per racchiudervi un messaggio universale, insito nella natura stessa dell’Uomo. Il centro della poesia, in Malacarne, non sono i fiori nel loro variopinto apparire, non è la luna, che facendo capolino tra le nubi, si china su due fidanzatini abbracciati, non è il vento, che scompiglia i capelli e agita le vesti d’una ragazza, non è il verde prato primaverile, che inebria l’animo dei suoi profumi e il cuore col fremito prorompente della vita. Questi stilemi sono presenti, ma non sono mai un fine, cui il lettore deve concentrare la propria attenzione. Questi, semmai, costituiscono un involucro, un accidens, che deve condurre alla substantia, all’essenza della poesia. Se fossero allineati e ben disposti solo gli elementi appena enumerati, la poesia risulterebbe un inutile ciarpame. Non a caso, infatti, la Stefanelli, così, in Malacarne, si rivolge al lettore, perché, abbandonato il guscio, penetri sensibilmente verso l’interiorità, che ogni parola, ogni verso, ogni strofe contiene:

Ora vedi una lama piroettare

            incontro all’infinito

            fare disegni su terra e fatica

            nel tempo-spazio tuo

            -mai conosciuto-

            comporre mondi in fantasie di luce.            

Nell’incontro o, meglio, scontro tra poesia e lettore, perché il senso di quel che si legge penetri profondamente all’interno dello spirito, il lettore deve mostrare il petto nudo, disarmato, pronto a ricevere, anche con dolore, le verità più nascoste e arcane. Solo quando, secondo Foscolo, si instaura una rispondenza d’amorosi sensi tra voce narrante, costituita dal poeta celato dietro i versi, e la voce ricevente, nascosta nell’intimo dell’Uomo, si percepisce fino in fondo quanto il poeta, diventato umile discepolo e messaggero delle Muse, trasmette mediante suoni e parole. in quel momento i lessemi e i sintagmi perdono ogni valenza umana e proiettano il lettore aperto all’anelito del bello e del vero verso orizzonti nuovi, dove trova pienamente se stesso, con tutte le sue ricchezze insieme con tutte le sue miserie, perché nel vero universo della Poesia c’è gioia e dolore, ricchezza e povertà, felicità e infelicità. È il bagaglio dell’essere Uomo.

Brevi riflessioni su Malacarne

Sin dalle prime liriche, precipitate nella raccolta Rosanero, uscito nel 2015, Patrizia Stefanelli racconta ai lettori i suoi meditati e sofferti intenti poetici, espressi con un linguaggio, che rompe gli schemi della poesia convenzionale, da salotto, tanto cara a vuoti estetizzanti cantori del nulla. L’autrice sente la pressione e l’aggressività dei versi che fuoriescono e prendono carne su carta. I versi sin dalla loro genesi sono liberi da schemi precostituiti; e, a mano a mano si sostanziano e prendono forma, cominciano a vivere a palpitare, a penetrare come strali, prima nell’animo di chi li ha concepiti e scritti e, successivamente, nella coscienza di quanti si accostano alla lettura e alla meditazione a occhi chiusi, per lasciarsi trasportare dalla melodia insita nella parola, nel verso, nella strofe, senza soluzione di continuità, perché non permette al lettore di estraniarsi o distrarsi.

La genesi di ogni carme contenuto nella raccolta trova la sua archè nella travagliata e sofferta meditazione su quanto di più intimo e personale vive all’interno di un animo sensibile e sensuale, continuamente chino sulla meditazione e la ricerca dell’ego cogitans, dell’ego agens, dell’ego fruens. Paradigma di quanto detto può essere la breve pericope estrapolata dalla lirica Divertissement: Vero metrico versus libero:

La prego mio signore s’ha da fare,

            mi porti al passo ed io sarò fata,

             così leggera, parte degli arredi

            che in fondo in fondo mai a nessuno la diedi.

In questo breve assaggio, essenziale per comprendere il complesso universo, tutt’altro che onirico, nel quale la donna esprime senza pudori o reticenze le più riposte emozioni e sensazioni in tutta la loro dimensione, soprattutto umana. Il corpo femminile, che nei vorticosi e sensuali volteggi della danza si contorce e rivela la sua innata natura ammaliatrice, è ancora illibato, in attesa che un cavaliere, abile nell’arte di Tersicore, sia altrettanto abile ed esperto nell’intricato e allettante gioco di Venere. Cupido ha scagliato la freccia, che dritta è finita nel punto desiderato, là dove l’universo della natura umana trova principio e fine, gioia e dolore, piacere e struggimento spirituale. Al ritmo della musica, accompagnata dalla sottesa sensualità, il cuore sobbalza nel petto e la danzatrice, ormai doma dall’intimo piacere e dal fremito suscitato dal fruscio delle vesti, che avvolgono il corpo ormai maturo, senza rossore confessa di non essere stata di nessuno e d’essere prona a quel rito tanto atteso e desiderato. Ora è lì, a portata di mano, nel tripudio dei sensi nell’apoteosi di un amore cullato dall’infanzia. La naturalis religio qui, nel frenetico e travolgente ritmo d’una musica solo immaginaria, appena percettibile solo dal corpo interessato, trova la sua ipostasi nel desiderio di un godimento spirituale, senza limiti di tempo e di spazio. Scompare persino la carne, elemento necessario per il compimento di quel rito naturale, cui l’essere umano tende, sospinto dall’intimo desiderio di realizzare il proprio ego procreans, che si infutura nel sensibile e universale archetipo dell’antropogenesi, insita nella natura dell’Uomo. L’invito a quell’atto sublime è appena adombrato nelle velate parole d’una profferta chiara ed esplicita, avanzata senza ferire il verginale candore della natura, tesa alla sua piena realizzazione, al fisico soddisfacimento dei sensi ormai maturi.

La lirica, però, non è solo questo: le due ottave iniziali, fuse in un’unica strofe, presentano caratteristiche tecniche e foniche, che richiedono attenta riflessione, perché il lettore comprenda e penetri nell’intenso lavorio, profuso nell’affannosa ricerca del lessema adeguato a quanto la mente meditava e fisicamente realizzava sulla carta. Si riportano qui i versi della prima ottava, evidenziando in corsivo, assente nel testo, il lungo e paziente labor limae, cui la lirica, dalla sua  è stata sottoposta:

La sala è piena o brava gente

fulgente pare questa veramente

si esalta insieme al pubblico pagante

di tante riverenze poi anelante,

d’un caldo battimani e adulazione

fusione della pura esibizione.

I richiami fonici delle prime due ottave sono così ben congegnati e collocati al posto giusto, con tanta naturale successione, che il lettore sorvola senza accorgersene, attratto e distratto dal senso veicolato dai sintagmi giustapposti da callida iunctura.

Anche il lettore attento, trascinato e travolto dal ritmo incalzante dei lessemi, che si susseguono come le note della melodia, che alimenta e avvolge la danza, sorvola lieve e leggero su libertango, lessema derivato da A. Piazzolla e abilmente sfruttato dalla poetessa, è inserito in fin di verso, in pieno rilievo:

Guardate giunge il re del libertango

il rango è tanto lungo e dunque piango.

A una breve e succinta analisi lessicologica, il termine risulta composto da libero e tango, con elisione del fonema terminale del primo lessema, necessario per dar vita a un nuovo termine. Questa improvvisa e non casuale creazione costituisce la protasi, sulla quale ruota tutta la lirica e trova l’epilogo nell’innocente ed evocativa rivelazione della sua matura verginità, a lungo conservata, in attesa di offrirla a chi nel vorticoso e sensuale tango della vita è libero, e in grado, di cogliere e di godere il frutto maturo dell’Amore.

Ma Divertissement, letto solo in questa dimensione, risulta depauperato del suo spirito intimo e del suo intento satirico, che in non pochi punti sfiora il sarcasmo. Per comprenderlo a pieno bisogna vedere come la Poetessa con fine ironia mostra come un intelletto poco dotato, che, nella sua aberrante mediocrità, per non dire squallore, si accosta alla sublimità dell’arte in maniera superficiale, senza la cultura necessaria, senza la preparazione adeguata, senza i mezzi, che il lungo lavorio e la cultura soprattutto possono offrire.

I poeti emergenti, spesso goffi e gretti figuri, privi d’ogni scrupolo, non esitano a trovarsi un protettore potente, il re del libertango, e a prostituirsi, pur di raggiungere l’agognata meta. Quando entra in scena un sì squallido personaggio, la Poetessa adegua il linguaggio al rango del povero meschino, che ignora i principi fondamentale dell’Arte. Il verso par che singhiozzi, alla nobiltà d’espressione, registrata nelle due ottave d’apertura, costruite con squisita perizia tecnica e linguistica, subentra un linguaggio scadente, degno d’una protagonista infelice e senza scrupoli, la quale, pur di raggiungere traguardi a lei vietati dalla limitatezze dei mezzi, non esita a dire al suo cavaliere protettore: in fondo mai a nessun la diedi. C’è da chiedersi, a questo punto, se la sbandierata verginità sia vera o fittizia, perché personaggi così loschi non esitano a ingannare, assumendo il degradante ruolo di lecchini, anche i più avveduti, i re del libertango; non esita a offrire i suoi servigi, a mettersi s completa disposizione del potente di turno e collaborare a imprese per le quali non ha attitudine alcuna:

fastidi non darò mi so adagiare

            vedrai faremo infine una cordata;

            davvero non le resta che provare

            di corte in corte andremo all’adunata

            e mi potrò sicuro allivellare.

            Ah bene, ora mi prende la ballata.

In questa sestina endecasillabi, a rima alternata, ben riflettono lo stato del mediocre protagonista, il quale, pur di primeggiare e sciorinare la sa cultura non esita a cadere in un madornale errore linguistico, allivellare, che sa tanto di rozza leziosaggine. La neoformazione, volutamente collocata in fin diverso e in rima con provare, evidenzia da una parte l’accurata composizione strofica e metrica, dall’altra la sottile ironia, con la quale la Poetessa non esita a bollare promettenti e fasulli scenari di successo. Perciò con voluto calcolo spezza il ritmo, annienta la lingua, trascura il verso e scade nella tanto banale quanto assurda sequenza:

Un

            Due

            Tre

            Zum.

Ogni lirica della ricca e interessante silloge racchiude in sé il luogo, non sempre reale, fisico, geograficamente individuabile; il tempo, che con il suo ritmo incessante scorre isocrono e avvolge la scena, nella quale l’anima esprime le sue emozioni, le sue sensazioni, quegli stati caratteristici di particolari momenti e tensioni psicologiche; lo spazio, che, sia esso reale o figurato, costituisce un elemento indispensabile e importante per la realizzazione dell’espressione poetica, arricchita da fonosimbolismi e metamorfiche creazioni linguistiche, all’uso delle quali affianca espressioni gergali, tipiche sia della sua estrazione sociale sia del luogo, dove trascorre la vita e attinge a piene mani quanto rielabora in versi, pregni del sapore tanto itrano quanto gaetano. Notevole ed efficace il sintagma, pieno di sapore epicorio, della citata lirica, nessuno nasce imparato, che, per la sua pregnanza, costituisce un gioiello incastonato in una corona di ferro. Ma all’attento lettore non sfugge il tanto desueto quanto icastico svolano, contenuto in un verso tratto dalla lirica dell’amore: sul’acqua di frontiera aironi svolano. Il verso successivo si impreziosisce col tanto raro quanto efficace campelli, collocato nella sezione finale: ogni tanto sento dai campelli

Una breve, e amara, riflessione rimane intorno ai seguenti versi, tratti dalla lirica Alterata visione d’interno intorno al nulla. Già nel titolo si intravede lo spirito dell’anima, che ha concepito versi, che per la crudezza delle immagini, che sembrano usciti dalla penna di un poeta maledetto:

sono stata l’autrice di un titolo improbabile.

            “Bio-logico” (lo strappo è orizzontale).

            Magia delle prole, sostanza di negata

            voglia di dire e dire della vita

            il logico del nulla che ci resta.

In questa apparente scarna pericope, incentrata sui suoni nell’accota disposizione delle sillabe, libere nei primi tre veri e chiusa da due endecasillabi, nel primo dei quali la studiata ed efficace anafora di dire e la sequenza di due complementari in casi diversi e giustapposte per asindeto, conferiscono la vera dimensione di tutta la lirica. Sembra che tutta la lirica sia intrisa di pessimismo, di considerazioni negative sulla vita di tutti i giorni. Il verso senso, però, quello più riposto e dato dal susseguirsi di versi di varia estensione, a colto nella luce, che disegna gli oggetti e conferisce loro contorni ora definiti, ora incerti, come certi racconti di Borges o la voce di Celine, abilmente rievocati, come numi di inconscia ricerca di sé, del proprio destino, mentre si brancola nelle tenebre alla ricerca di uno spiraglio di luce.

Temi, ispirazione, realizzazione, metrica

Il tempo e lo spazio, nei quali Malacarne trova tanto la genesi remota quanto l’attuazione è il limpido scenario, che si apre sul golfo di Gaeta, quale si ammira dalla finestra dello studio, dove l’Autrice passa gran parte del suo tempo. Ma quel lembo di paradiso, là in quel suol beato / dove sorridere volle il creato ed è l’impero dell’armonia, non emerge nella silloge, ma è rievocato da immagini, che può decriptare solo chi vive in quei luoghi e percepisce il susurro, che viene da ogni cespuglio, dallo stormire delle fronde, dal vento salmastro, che viene dal mare, dal profumo delle viti e degli olivi,  dal silenzioso bisbiglio, che muove i suoi passi dalle cime delle colline e dei monti, che incorniciano luoghi pregni di storia e tradizioni. La Poetessa non si sottrae al fascino, alle malie d’una terra generosa e avara nello stesso tempo, ora lussureggiante nel rigoglio della primavera ora spoglia nei rigidi geli invernali; e la ricorda così nella lirica Dove i treni passano:

ma cosa, cosa resta

            al di là delle colline dove

            i vitigni si appaiano come

            soldati di trincea.

Ma la riflessione si sposta subito agli effetti, spesso deprecabili, di una selvaggia e in controlla antropizzazione di quella dolce e fertile contrada, quando di seguito, non senza una punta di malinconia, dice:

muri scarniti ossatura di giorni,

            cocci di vetro, rivoli stagnanti,

            graffiti a pareti di sogni.

            E là, più in là, persiane

            divelte su una stanza buia 

            e n’esce una colomba.

L’anima, in questa breve strofe, nella quale ai due endecasillabi iniziali segue un novenario, che chiude un pensiero in sé compiuto, riflette sulle vestigia lasciate da quanti, anni addietro, hanno respirato quella stessa aria, hanno calcato quello sesso suolo, hanno abitato case che ora, abbandonate all’ingiuria del tempo, son diventate custodi di arcani segreti e, forse, di una felicità tramontata per sempre. Negli altri tre versi, il primo e il terzo dei quali sono settenari, che incorniciano un novenario, l’anima, mentre contempla mesta il rudere abbandonato, vede all’improvviso nella colomba, che rapida solca il cielo e fugge dal quel luogo di morte apparente, lo sbocciare della vita, la ricerca dell’infinito, la presenza inaspettata d’un elemento apportatore di gioia e serenità.

Nella varietà dei temi, affrontati in Malacarne, l’amore, anche se il lessema ricorre molto di rado e in contesti non sempre espliciti, occupa un ruolo di primissimo piano. All’amore puro e spirituale, accennato con tocchi leggeri e sfumati, subentra prepotente quello carnale e sensuale, mentre avvinghia due corpi uniti nell’indescrivibile estasi dell’appagamento psico-fisico. È, questo, un aspetto, che si coglie di rapidi accenni, dalle fuggenti e fuggevoli allusioni, dai sommessi mormorii tra occhi illuminati da un quid, che la poesia, anche profonda, non riesce a descrivere nella sua diversità e bellezza. Nel trattare questo tema, spesso banalizzato o reso volgare da un linguaggio crudo e violento, emerge la squisita sensibilità e il tatto inconfondibile della donna equilibrata, che vede nell’uomo il necessario completamento e il naturale appagamento dell’io femminile. La Poetessa indaga le più riposte pieghe della psiche femminile con garbata e velata sensualità, appena celata dal pudico velo della discrezione e del decoro, come si può intravedere nella lirica Amanti, alla quale si rimanda il lettore, perché assapori, a occhi chiusi, il dolce e drammatico furore di nature selvagge, avvinte da musica celestiale: sospese / tra le braccia di un uomo: musica / amplissime falcate, alte vedute …

In questi pochi versi la Stefanelli rievoca con la pacata armonia del decasillabo e dell’endecasillabo il celestiale abbandono di due anime, che, mentre si donano, si completano e saziano a vicenda. Non sconfina nel volgare, nell’indecente rappresentazione d’un atto, che, per la sua sacralità, è il più caro e protetto dal pudore di entrambi gli artefici della più bella e più pura felicità. Leggendo questi versi, la mente ricorre all’impalpabile leggerezza, che adorna l’immortale lirica di Saffo. Non diversamente dalla poetessa di Lesbo, Patrizia infonde nei suoi versi l’innata sensibilità femminile, che con finezza di sentimenti e di parole adombra temi e situazioni, che suscitano tenerezza, fremiti, passioni, come nei seguenti versi del già citato carme:

e picchiare alle fonti e risalire

            allo splendore

            sfiancate di corse alle valli

            e poi discese.

 

            In planare leggero

            un uomo, una donna, la musica.

Dell’Autrice, però, oltre a quanto già accennato, bisogna ammirare la perizia, con la quale tratta la metrica, che oggi sembra bandita dalla cultura poetica italiana. Il lettore, sensibile e attento a questo particolare aspetto, che i grandi del passato hanno coltivato con scrupolosa puntualità, non può non ammirare la tecnica scaltrita e raffinata, che rendono ogni lirica un capolavoro da centellina, da gustare nel silenzio della propria anima a tu per tu con la Poesia. Per chi non è abituato o non ha dimestichezza con i metri della grande lirica italiana è difficile seguire tanto la genesi quanto la realizzazione della silloge Malacarne, nella quale, anche in una sola lirica, si trovano endecasillabi, settenari, decasillabi, novenari variamente rimati e ritmati. Davanti a tanta dovizia anche chi è avvezzo a maneggiare i vari metri rimane sconcertato e si immerge con maggiore ardore e interesse nella lettura, per carpire di ogni lirica le più tenui sfumature.

 

per leggere la prima parte della recensione su Malacarne

Per vedere video Lectio Magistralis Manfredi di Svevia del Professor Orazio Antonio Bologna