Le recensioni di Orazio Antonio Bologna

M A L A C A R N E di PATRIZIA STEFANELLI

 P R E F A Z I O N E

Nel vasto e variegato universo della poesia italiana non è né peregrina né nuova la presenza di Patrizia Stefanelli, che è tornata alla ribalta della critica con un ampio e sofferto florilegio, degno della più grande attenzione e considerazione, per le novità introdotte con la valenza dei contenuti e la sicurezza di apportare considerevoli novità. La presente silloge, non a caso intitolata Malacarne e frutto di continue ricerche, di instancabili meditazioni, di acrobatiche sperimentazioni, induce a serie riflessioni soprattutto quanti sono assillati da inconsci tormenti contenutistici, da febbrili ricerche metriche ed espressive, da angosciosi temi, che serpeggiano nella società, sempre più disorientata dai mezzi di informazione e dalle incertezze procurate dai continui cambiamenti e dalla rapida evoluzione. La poetessa, consapevole del ruolo paideutico della poesia, rifugge gli sdolcinati epicorismi, tanto comuni quanto obsoleti, e da autentica protagonista di una rinnovata stagione letteraria, non esita ad affrontare un agone, nel quale solo pochi spiriti riescono a cogliere i vivi e palpitanti sintagmi per una lirica sentita, corposa e saldamente strutturata.

  1. Riflessioni sulla poesia contemporanea

Nel variegato e fluttuante panorama della letteratura italiana  operano non meno di tre milione e mezzo di poeti, i quali, come capita di osservare, badano più alla quantità che alla qualità della produzione, spesso esorbitante. Tra questi, che con i loro libriccini riempiono scaffali interi e strombazzano ai quattro venti versi di nessuna considerazione, ben pochi attingono alle vette del Parnaso o d’Elicona, e sono letti, ammirati, proposti all’attenzione di un pubblico più o meno vasto. Il resto, la stragrande maggioranza, non solo non è letta, ma non sarà, probabilmente, mai letta. Perché accada ciò, è facile intuire: a moltissimi sedicenti poeti manca quanto già Callimaco, Orazio e Catullo, in mezzo a una pletora di verseggiatori, caldamente raccomandavano. Al pondus, cui molti scrittori di versi sembrano appigliarsi, manca il quid substantiale e il quomodo canendum sit, elementi fondamentali indispensabili, per comporre carmi che sfidano i secoli e, sempre freschi e vivaci, sono degni d’essere proposti all’attenzione e alla formazione umana e spirituale sia dei contemporanei che dei posteri.

Ai due elementi appena citati, molto spesso, nessuno affianca la doctrina, che costituisce sempre il coefficiente portante e vivificante dell’intera struttura sintagmatica. Senza questo peculiare aspetto, del quale molti ignorano non solo la valenza, ma persino l’esistenza, il carme risulta un’arida e asfittica giustapposizione di lessemi vuoti, privi del loro intrinseco valore semantico. Per tal motivo molti poeti si abbandonano a indecorosi salti acrobatici e, con le loro stramberie, sbandierate e proposte come novità e profonda innovazione, cercano di catturare l’attenzione di pochi e ignari uditori, che di poesia, forse, conoscono solo il nome e ignorano la vasta e complessa estensione semantica sottesa a così nobile lessema.

L’attenta e puntigliosa analisi della vasta produzione contemporanea porta necessariamente al confronto, alla riflessione e alla riproposizione di quegli insostituibili dettami, i quali, fino a qualche tempo fa, hanno costituito le linee guida per un valido e costruttivo discorso poetico. Questi, bistrattati e considerati inutile ciarpame, sono stai banditi da quando nella poesia è stato introdotto il cosiddetto verso libero. Molti verseggiatori, però, non si sono resi conto, né si rendono ancora conto, che verso libero non significa assolutamente liberazione dal verso propriamente inteso.

Per tal motivo l’ars, della quale vanno, e giustamente, fieri, perché molti sentono e vivono davvero l’intimo afflato, poggia su basi fragili, destinate a frantumarsi al primo serio temporale. Perché l’ars possa trovare piena realizzazione deve piegarsi più volte a riflettere su quanto Catullo dice nella dedica delle sue nugae a Cornelio Nepote:

Cui dono lepidum nouum libellum

                   arida modo pumice expolitum?   

                   Corneli, tibi: namque tu solebas

                   meas esse aliquid putare nugas

                   iam tum, cum ausus es unus Ialorum

                   ome aeuum tribus explicare chartis,

                   doctis, Iuppter, et laboriosis.

[A chi potrei donare questo nuovo grazioso libriccino, appena levigato dalla ruvida pomice? A te, Cornelio, perché solevi ripetere che i miei scherzi poetici avevano in sé qualche pregio fin da quando tu, unico fra gli Itali, hai avuto il coraggio di trattare la storia universale in tre volumi, allestiti, per Zeus, con tanta dottrina tanta fatica].

L’attento e saporoso carme di Catullo è stato riferito non per sfoggio di cultura, ma per offrire alla riflessione di quanti scrivono o si accingono a scrivere poesia pochi ma necessari spunti di riflessione. Questi, sostanzialmente, si desumono dalla breve pericope citata e si fondano sulla breuitas, sulla doctrina e soprattutto sul continuo e inteso labor limae, che conferisce al componimento la necessaria politura e l’accattivante lepidezza. Non si lamenta, oggi, la breuitas. Anzi, dopo la felice stagione inaugurata dal Pascoli con Myricae, proseguita da Ungaretti e condotta alle estreme conseguenze dai suoi epigoni, questa peculiarità non manca, impera sovrana. Ma ciò che nei componimenti di molti autori emerge sin dalle prime battute è la carenza tanto della doctrina quanto del labor limae, elementi, questi, considerati pressoché inutili, perché appesantiscono e a quanti non sono a ciò seriamente educati, rendono difficoltoso il processo della rielaborazione lessematica, che costituisce la parte fondamentale per la proposta di un carme, degno d’essere letto e posto alla considerazione dei lettori. Alla prima lettura di molti libri si avverte tanto la deprecata improvvisazione quanto la mancanza d’un attento e adeguato lavoro propedeutico, durante il quale il poeta, prima di cimentarsi con l’amabile dono delle Muse, secondo la felice definizione di Archiloco, ancora oggi attuale, deve formare e plasmare lo spirito con la levigatezza e lo spessore dei contenuti, espressi negli immortali componimenti dei grandi ingegni, vissuti nei secoli passati. Questi, lungi dal costituire un ingombrante zavorra o le fastidiose pastoie alla bellezza e alla spigliatezza dell’ispirazione, sono i giganti, sulle spalle dei quali il poeta contemporaneo, pur cantando i radicali cambiamenti e i traumatici eventi del nostro tempo, deve poggiare la sua ricca e solida formazione.

La recensione continua nel prossimo articolo dedicato alle “Recensioni di Orazio Antonio Bologna”

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