Orazio Antonio Bologna
Brevi riflessioni

su LA MALEDIZIONE DI PENELOPE IL VOTO DI PENELOPE

di Milica Jeftimijević Lilić

 All’interno del complesso e difficile scacchiere balcanico la poetessa serba Milica Jeftimijević Lilić è una voce di considerevole spessore e grande levatura sia sotto il profilo culturale che sotto quello morale e sociale. Segnata in modo indelebile dalle orrende e dolorose vicende della guerra, che, per circa un decennio, ha insanguinato e seminato stragi tra le popolazioni balcaniche, Milica non ha mai cessato, né cessa, di alzare la sua autorevole voce per condannare i crimini, dei quali si sono macchiate le diverse e contrapposte etnie in nome di una tanto assurda quanto feroce supremazia. La sua poesia, nutrita dalla cultura e dall’amara esperienza di vita, si leva potente contro i soprusi della violenza e contro quanto un confitto armato porta necessariamente con sé, per trascinare nella rovina borghi, paesi, città; per distruggere campi, case e ogni forma di vita; per alimentare odio tra uomini, causare stragi di innocenti e infierire senza distinzione contro bambini donne anziani. In guerra l’uomo perde ogni freno e si abbandona al libero sfogo degli istinti più bassi, alimentati dalla ferocia e dalla barbarie.

Alimentata da fede grande, sincera e cristallina, Milica tende verso la ricerca costante della vita, della Verità suprema, che porta sempre con sé Pace e Fratellanza: in un Paese in pace, gli uomini sono liberi e attendono alle attività assegnate loro dalla vita; il benessere materiale conferisce serenità e tranquillità, permette lo sviluppo delle Arti e delle Scienze e, con queste, la crescita della vita civile e ddll’amore

Calda e, nel tempo stesso, dolorosa è la riflessione di Milica sulla guerra, che chiama alle armi giovani mariti per imprese indegne di un essere dotato di intelligenza e di cuore. Il suo Paese, nel quale ha trascorso gli anni più belli della vita, gronda sangue e i morti si aggiungono ad altri morti. Per avere una pallida idea di quanto dolore alberghi nell’animo delle persone sensibili, di quanti odiano la guerra, la riflessione si può fermare sulla breve, ma intensa, lirica La maledizione di Penelope, con la quale, qualche tempo addietro la Poetessa poneva le basi per la presente accolta, la quale già nel titolo, Il voto di Penelope, invita il lettore a una più profonda e ampia riflessione sulla sua origine, sulla sua presenza in questa vita e sul suo fine ultimo. Nella lirica, come alle prime luci dell’alba, si avvertono i prodromi di uno sviluppo religioso, morale e psicologico diverso, che nella nuova raccolta trovano spazi più ampi e risonanze semantiche più vive, vibranti per la continua tensione verso la luce cangiante della vita. Se nella lirica Milica leva accorata la voce per la partenza del soldato, ormai sposo, destinato a uccidere e ad essere ucciso, con nuove e più profonde meditazioni innalza la mitica figura omerica a emblema della donna, la quale, nell’atto stesso di donare la vita, si pone pressanti riflessioni su questo dono misterioso, arcano, custodito nel suo essere. Non a caso, infatti, la raccolta si apre con la lirica Poesia, come se volesse riprendere e dipanare in ordine diverso la sublime poesia, che l’eroica sposa di Odisseo suscita nell’antico vate greco.

Per Milica Penelope non è un mito relegato nel passato, ma una donna viva e palpitante, che intesse il colloquio con l’uomo di oggi su temi di particolare rilevanza culturale: la Poetessa, infatti, consapevole del ruolo assunto sempre più dalla donna in seno alle società più evolute sotto l’aspetto culturale, declina la sua presenza sulla terra, richiamando l’episodio biblico della creazione:

Nata dal corpo e dalla mente,

sono una dualità

definita dall’esistenza celeste e corporea.

A volte celebro il Creatore,

l’anima di tutto,

                a volte sono solo un corpo,

         il mio essere terreno brucia intensamente.    

La donna, infatti, secondo la Scrittura, a differenza dell’uomo, plasmato con la terra, è nata dalla sua costola dell’uomo e dalla mente di Dio. Perciò conserva una dualità non concessa all’uomo, cui la Natura ha assegnato compiti diversi e diversa dualità. Entrambi gli esseri, in seguito dati alla luce dalla donna, hanno in sé, racchiusa nella sensibilità e fragilità del corpo, la scintilla divina, la mente, che non dovrebbero mai mettere da parte o, peggio, dimenticare.

Durante la guerra, come Milica annota ne La Maledizione di Penelope, l’uomo rompe ogni vincolo col divino, ogni remora, diviene belva e non serba il minimo rispetto soprattutto verso la donna, sistematicamente violentata, stuprata, ammazzata. Non di rado nei luoghi, dove sono stanziati, non pochi uomini, che hanno lasciato a casa moglie e figli, formano nuove famiglie, dimenticano il passato, infieriscono su esseri inermi dopo aver soddisfatto gli istinti bestiali. La guerra stravolge i ritmi normali dell’esistenza, cancella gli affetti più cari.

Per denunciare lo stato doloroso e deprecabile di molte donne abbandonate, di molte famiglie distrutte, Milica rievoca la storia esemplare di Penelope, la sposa, che Odisseo trovò dopo vent’anni in fedele attesa. In questa lirica Penelope diviene sulle tracce di Omero, l’icona della fedeltà coniugale, alla quale hanno volto il pensiero e l’attenzione generazioni di poeti, intellettuali, sociologi, psicologi.

Il grande e valoroso eroe omerico nel suo lungo peregrinare strinse tra le braccia altre donne, ma nessuna soppiantò Penelope. La poetessa, per denunciare lo stato di abbandono, nel quale si trovano molte donne a causa della guerra, ricorre a un mitologema dotto, noto a quanti conoscono l’Odissea, e di sicuro impatto sul lettore. Nel rievocare il dolore di molte donne, di molte mamme abbandonate, Milica immagina Penelope, che, mentre dà l’ultimo addio al marito in partenza per Troia, gli rivolga le seguenti parole:

porterai al di là il mio volto,

mi verserai in alto mare

perché io possa riemergere dovunque ti fermerai.

Perché il dotto riferimento sia comprensibile e riveli tutta la sua efficacia evocativa, bisogna richiamare alla mente quanto accadeva tanto ai soldati che andavano in guerra, quanto ai mercanti, che si recavano a commerciare in paesi lontani. La letteratura classica è piena di notizie e puntali riferimenti. Dalla lettura dell’Odissea si viene a conoscenza che Odisseo, durante il viaggio di ritorno da Troia, si abbandona volentieri a diverse avventure. Tra tutte le donne, con le quali ha intrattenuto rapporti amorosi più o meno lunghi, famose e indimenticabili sono Circe e Calipso. Ma nessuna gli ha sradicato dalla mente Penelope, per la quale nel segreto del cuore nutriva cocente nostalgia.

La breve pericope, ancora, offre lo spunto per notare che lungo le coste, in luoghi ben individuabili e noti, c’erano le ierodule, sacerdotesse di Aštarte e Ašerah, che praticavano la prostituzione sacra nei santuari situati sulle rotte delle vie commerciali.

Alle fugaci avventure dell’uomo in giro per il mondo, rievocate dal cantore dell’Odissea, Milica oppone con voce decisa le sue attese di donna, di sposa, di mamma. Nella lirica Poesia, con la quale apre Il voto di Penelope, con accorata presa di coscienza, rivela la sua forza interiore, maledice le assurde vicende, che l’uomo, destinato a separarsi dagli affetti più cari, deve affrontare in spregio a quanto la Natura gli ha messo nel cuore:

A volte impotente maledico le basiche

intenzioni del mondo,

a volte gemo tristemente

per la casa, l’uomo e la mente perduti.

Ma sono sempre aperta al rapimento

del cuore che

fugge da me.

Con la lontananza dell’uomo, la donna perde l’essere al quale è legata da vincoli carnali e spirituali. Nella lirica La maledizione di Penelope la donna si addolora per le soddisfazioni, che il suo uomo può trovare lontano dalle braccia della ‘legittima sposa’ e si angustia, si macera impotente nel dolore, sostenuta dalla ferma speranza del ritorno alla vita passata e bruscamente interrotta. Sa bene che il suo uomo nel vagare di terra in terra va incontro necessariamente a trasporti passionali, anche se fugaci. Sulla sua rotta, come Odisseo, trova numerosi santuari, la presenza dei quali di notte è segnalata da fuochi accesi, che fungono anche da fari. Questi luoghi sono popolati da donne, le quali, mentre espletano un atavico servizio cultuale, offrono agli uomini prestazioni fisiche intense, più o meno durature. Odisseo, anche se durante la guerra ha avuto certamente più d’una concubina e durante il viaggio di ritorno si è fermato per un congruo periodo di tempo in diversi luoghi, non riesce a dimenticare Penelope, dalla quale ritorna dopo numerose e avventurose peripezie. Nel cuore e negli occhi, nonostante gli anni della lontananza, rimane sempre viva l’immagine della sua donna, la quale, sebbene immagini le avventure amorose del marito, rimane in casa sola col figlio, in fedele e fiduciosa attesa del marito. Sa che il suo Odisseo, mentre è accampato sotto le mura di Troia, ha concubine razziate nelle vicinanze, ma non si dà per vinta, perché il marito non può dimenticare il calore delle sue braccia, i fremiti del suo amore.

Sensibile interprete dell’animo femminile e soprattutto della sposa lasciata custode del focolare domestico, Milica si accosta insensibilmente, senza che il lettore se ne avveda, a un’acuta e semplice analisi esistenzialista. E ciò avviene in maniera quasi inconscia, perché in Penelope il distacco proietta nella sua mente le avventure amorose, cui il marito va incontro, e lei è sola, e attende. Ma è anche consapevole, anzi certa, che Odisseo non la potrà mai dimenticare: non a caso, infatti, Milica nella toccante lirica tratta da Il voto di Penelope pone in bocca alla protagonista riflessioni e considerazioni di grande impatto emotivo mediante ardite metafore e col ricorso a stilemi di forte risonanza per la certezza e la crudezza del distacco e pe il lasciato dell’abbandono:

Giuro sul silenzio

dopo tutte le parole vuote

piene di tesori e giada,

giuro sulla sua forza,

sul suo profondo potere di guarigione,

quando si soffre con tutto il cuore.

 

Nei pochi versi, meditati e sofferti, si intravede la purezza della lirica e la cristallina semplicità degli stilemi, che si snodano in un tessuto narrativo ben strutturato, articolato, misurato, scandito da versi ora lunghi ora corti. Al respiro a pieni polmoni subentra il singulto d’una frase, d’una parola strozzata dall’emozione e dalla dolcezza del ricordo, vissuto all’ombra dell’amore più puro e intenso. Perciò Penelope può dire al suo uomo, col quale si è schiusa a una nuova esistenza:

Conosco un’essenza più significativa

di tutto ciò che finora è stato detto

e percepirai con il tuo cuore

quella fiamma di profondo silenzio.

 

Animata da grande fiducia e speranza, Milica con immagini di rara bellezza e potenza evocativa ripropone al lettore tanto l’eterna verità del verbum contenuto nei ricordi quanto l’attualità del presente. La Poetessa concilia e fonde nella lirica due culture, lontane e contradittorie solo in apparenza. La cultura classica e la quella della sua formazione giovanile trovano nell’animo raffinato della scrittrice un sublime punto di incontro, e si completano a vicenda. Con l’esodo di Odisseo da Itaca per Penelope cominciano le privazioni dell’amore, le amarezze dell’insidia, il dolore della lontananza, la nostalgia dei giorni felici, che nessuno dei due potrà mai dimenticare.

Come Penelope, anche le donne balcaniche, alla partenza dei mariti, sono certe di vivere nel cuore dei loro uomini, nei quali con il loro amore e la donazione di sé hanno lasciato segni indelebili, ed esse nella maledizione della separazione aspettano avvinte ai saldi e misteriosi legami dell’Amore.

Le coraggiose e forti eroine dei Balcani in guerra, nonostante sentano in assenza dei mariti il naturale richiamo dell’amore, come legate da corde invisibili aspettano fiduciose che i mariti ritornino, per soddisfare i naturali e legittimi impulsi della natura: la loro redenzione consiste nell’aver resistito alla tentazione di concedersi a un altro e nell’abbandono al volere di Dio.

Ma sulla bocca del luminoso eroe greco nella lirica La confessione di Ulisse Milica, non senza un significativo richiamo alla fonte primaria del suo essere donna, pone in bocca a Penelope espressioni pregne di recondita e pur sempre attuale speranza:

Quando ti guardai,

era il primo giorno di pioggia                                                     

ma io vissi come se ci fosse il sole.

dopo quello, in molti giorni piovosi

he la vita mi concesse

(allora non potevo saperlo

che era il momento di un sogno)

sono tornata a quel giorno di pioggia,

assorbendo il raggio di sole dal tuo viso

per poter andare avanti.  

 

Le ardite ed eloquenti metafore evocano indimenticabili momenti di serena e duratura intimità e non lasciano presagire il triste momento dell’inaspettato abbandono. Intanto i giorni scorrono felici nella reciproca donazione, nella quale l’effluvio rigeneratore e ristoratore sparge sul fremente corpo di Penelope il pungente afrore dell’amore vissuto nella passione d’una carnalità intensa, sublimata dalla spiritualità inesprimibile del legame psicofisico. Un vivido raggio di sole illumina i volti trasformati dal sorriso dell’amore, ancora fragrante e ignaro dell’infausto destino, che non tarderà ad abbattersi sugli uomini greci, costretti a partire e vendicare l’onta inferta a Menelao dal principe troiano.

Penelope, priva del compagno, vive nella solitudine, nel silenzio più cupo, squarciato dai sospiri del desiderio, che la strugge e prostra, esalta e abbatte. Nel ricordo e nella rievocazione dei momenti ormai passati, così rivive gli attimi impressi nella memoria:

Più tardi, tutte le parole repressi

soffocandole in gola,

tacerle mi ha semplicemente ucciso

mentre eri sempre più lontano,

e mi mancava sempre di più

il sole che splendeva dalla tua faccia

e mai più s’irradiò nella mia vita

ci sono state piogge generose

così brillanti e uniche.

Penelope cerca invano di trovare altrove gioie e sensazioni, che solo Odisseo nei momenti felici poté concederle. Ma il suo triste cammino da sola, per la lontananza del suo eroe, è illuminato ancora da quel raggio di sole, che ha conosciuto e dal quale è rimasta abbagliata.

La Poetessa con la sensibilità propria della donna penetra in punta di piedi nell’animo della sua creatura, ne scandaglia le pieghe più riposte. Vede negli opposti stilemi della presenza e della lontananza, della parola e del silenzio, del contatto fisico e del distacco il dissidio insanabile di tante donne, che per gli orrori della guerra hanno dovuto separarsi dai propri mariti. Il panorama sembra pervaso di cupo pessimismo, di lutti, di abbandoni forzati. Sembra che l’immane tragedia non abbia più fine. Quando tutto sembra perduto, inghiottito dall’abisso della ferocia e della sensazione d’impotenza, il pensiero si risveglia, il ricordo riemerge, si accende la speranza e una luce improvvisa squarcia le tenebre dell’orrore e ritornano i momenti di dolcezza, come si avverte nella lirica Sei fiamma e fiumana, nella quale l’ego prende il sopravvento e allontana i fantasmi del cupo terrore vissuto nella solitudine:

Vieni finché sono più tua che mia

pronta a compiacerti

finché sarò la tempesta che ti solleva

verso l’infinito che desideri

finché sarò un’onda che ti abbraccia,

trasformandoti

finché sarò la scintilla che ti illumina

illumina il tuo essere …

Nella breve pericope, tagliata quasi a metà per economia di spazio, con intensa e pacata liricità la Poetessa rievoca il passato impreso nell’animo della donna e proietta uno squarcio di luce nell’incerto futuro, che le si chiude davanti. Affiorano i riflessi del passato, ma la speranza di un futuro radioso, inondato d’amore, schiude nuovi orizzonti, nei quali è racchiuso l’insondabile mistero dell’amore, pervaso di spiritualità e sensualità, di occasioni colte e di sospiri da godere nell’intimità della psiche, sempre proiettata verso l’altro, verso il suo inesauribile e desiderato completamento psichico prima che fisico.

Con questi versi Milica entra nel buio delle coscienze incattivite e incanaglite dalla brutalità della guerra, per gettarvi un tagliente fascio di luce; penetra nell’animo assetato di amore e mediante poderose immagini suscita emozioni e sensazioni mai sopite. Con immagini di rara bellezza ed efficacia, la lirica si snoda limpida, serena, pacata e, nello stesso tempo, drammatica per le brutture, che imbrattano l’umanità ammalata egoismo, di cattiveria, di soprusi.

La breve e intensa lirica alimenta in Penelope lo struggente desiderio che il marito torni a casa, ai suoi affetti, tra le sue braccia. Con crescente ansia e preoccupazione la donna rievoca la dolcezza del passato impresso nel suo animo e immagina che il suo Odisseo ritorni da un momento all’altro e stretto tra le sue braccia percepisca come nel passato mai svanito il suo anelito e ne appaghi l’animo teso verso l’insondabile eternità dell’amore.

Con questa nuova fatica Milica apre nuovi squarci nel complesso e fecondo panorama della poesia balcanica, in particolare, ed europea, in generale. Si inserisce a ragione tra le voci più limpide e cristalline della Poesia contemporanea, che per l’espressione lirica sta attraversando un periodo poco favorevole.

Il libro, non a caso intitolato Il voto di Penelope e merita una seconda e, forse, una terza e più approfondita e meditata lettura: parla dell’uomo, chiunque esso sia, della sua vita, della sua storia. Il proteico linguaggio poetico, che si snoda per ardue sequenze narrative, in sintagmi pieni di intime suggestioni e stilemi colti da esperienze concrete, cela e, nello stesso tempo, rivela la sua anima, la sua parte più intima, che, molto spesso, sfugge all’analisi, perché pur col tuo bisturi di chirurgo non riesce a percepire, a cogliere nel suo atto e nel suo divenire, ad analizzare il fremito che la pervade.

Nell’ampio e complesso panorama della poesia contemporanea, cui oggi pochi, forse perché distratti o ancora legati al passato, volgono la dovuta attenzione, la poesia di Milica meritea d’essere esaminato e colto nel suo sviluppo tanto sincronico quanto, e soprattutto, diacronico, perché col tempo sono mutati gli uomini ed è inesorabilmente mutata la loro formazione, il loro sentire e percepire l’amore, la vita, le emozioni, la morte. All’interno della feconda stagione poetica balcanica ed europea un cantuccio di tutto rispetto spetta a questo volumetto, nel quale sono raccolte liriche di intenso vigore espressivo, di accorata e sincera meditazione sull’uomo e sulla caducità di ciò che lo circonda.

Ma, se si cogliesse solo questo aspetto, pur fondamentale ed elemento portante di gran parte delle liriche, il discorso sarebbe monco, perché si tralascia l’amore, un aspetto, che domina e convoglia la vita dell’uomo verso direzioni impensate. Nel volume, infatti, non c’è lirica, nel quale questo sentimento, che è, in certo senso, il motore della vita, sia assente, perché la Poetessa si china con struggente nostalgia sui fremiti dell’amore, sul mistero della vita e della morte, sulla presenza delle stagioni e sullo scorrere del tempo e su tutte le conseguenze, che questo porta necessariamente con sé.

Accanto al motivo dell’amore in controluce, come una filigrana impercettibile, vive e traspare una sensualità appena accennata, racchiusa nei silenzi, nelle pause, tra un lessema evocativo e un sintagma pregno di immagini voluttuose, sfumate come le nebbie d’autunno o celato sotto una leggera coltre di neve, che si scioglie al primo raggio di sole.

Milica, però, non ferma la propria attenzione e lo sguardo meditativo e penetrate solo sugli elementi della natura, ma anche e soprattutto sull’uomo, che vive nella natura, è natura e le conferisce un senso, che, ovviamente, nel naturale scorrere del tempo, può essere positivo e negativo, presente e lontano. L’autrice, almeno nelle liriche qui raccolte, accanto a qualche nota di pessimismo, allude con soffuso rimpianto alla vita che scorre: Penelope averte l’scorrere inesorabile fuga degli anni e percepisce che l’inondante Ulisse va incontro a un inesorabile declino fisico, sul quale essa, donna viva e palpitante, poneva tutta la sua fiducia, il suo avvenire di piacere. Il suo presente, nonostante la labilità del tempo, è un sommesso tripudio di colori, una continua primavera con fiori e profumi inebrianti. Alla primavera e all’estate succede, per il naturale avvicendamento delle stagioni, l’autunno e l’inverno: Ulisse scresce, trascorre la giovinezza, della quale vive e sperimenta quanto di più bello essa porta con sé, e giunge alla vecchiezza, con le serie e preoccupanti vicissitudini, che conducono alla fine, al trapasso.

Le liriche, anche se non esplicitamente, sono pervase di un equilibrato e velato senso religioso, che conduce a vedere nel sole e, in modo particolare, nella luce tanto l’origine quanto la fine dell’uomo, che non è solo carne, solo senso, solo percezione di sé e dell’altro, ma anche spirito proiettato verso un infinito indescrivibile, in uno spazio metasensibile, dove solo lo spirito coglie e vive la sua vera dimensione.

Per giungere all’impercettibile concezione metafisica dell’uomo Milica si china cosciente sulla caducità della natura e sul limitato arco di tempo, nei quali l’uomo sperimenta il bene e il male, la gioia della vicinanza e il dolore del distacco. Per narrare queste necessarie vicende dell’uomo, non ricorre a stilemi di grande impatto emotivo, ma adopera una sintassi narrativa semplice, ma efficace; ricorre, talvolta, ad arditi anacoluti, i quali, rompendo lo svolgimento logico-semantico della pericope, costringono il lettore a ritornare indietro e ripensare quanto percorso, mediante un’analisi interna nuova, che proietta verso la luce dell’orizzonte, schiuso dai singoli semantemi legati da nessi semantici specifici di un linguaggio poetico, mutuato dai grandi poeti del secondo Novecento.

Anche se aleggia come lontano e sfumato sottofondo, non è presente in modo vistoso l’impronta della cultura classica e della prima, grande stagione della più raffinata letteratura italiana, che con i suoi stilemi ha nutrito una foltissima schiera di poeti. Nel linguaggio ora scarno, ora lussureggiante, Milica riversa emozioni, meditazioni, pulsioni di cristallina purezza mediante il sentimento e la tenerezza dell’amore coniugale, che smorza i vigori della passione irruente: è conscia che un passo più avanti aleggia tetra l’ombra della morte, avvertita nel distacco e nella lontananza di Odisseo, proiettato verso nuove avventure, verso l’ignoto. Penelope, rimasta ad aspettare il ritorno del suo eroe, nella solitudine delle pareti domestiche rivive le prime sensazioni dell’amore, mentre l’anima scossa da brividi e fremiti avverte chiari i segni di un radicale cambiamento interiore, di un rinnovamento nei pensieri, nei gesti, nelle stesse sensazioni. Ma il nuovo stato, come un mondo ovattato, l’avvolge lentamente, come lo sguardo della persona amata, mentre la mente è infiammata da inspiegabile calore. L’innamoramento è il naturale destino di ogni essere vivente, lo sbocco naturale verso nuovi orizzonti, l’apertura necessaria per la concretizzazione e la realizzazione del proprio essere. Nella patetica e accorata rievocazione dei momenti felici dati dalla fusione e dal calore fisico Milica ricorre a metafore di rara bellezza e di profondo contenuto semiologico: ogni uomo, ogni donna diventa un’isola nel fluttuante oceano della vita, nella quale queste ogni isola nell’apparente immobilità è mossa dall’amore, si fonde con l’altra per amore e insieme diventano una, per amore.

LA MALEDIZIONE DI PENELOPE

 

Gridò a Odisseo irrequieto prima di partire:

porterai al di là il mio volto,

mi verserai in alto mare

perché io possa riemergere dovunque ti fermerai.

I segni per il mio viaggio lontano

dovunque tu vada lascerai,

mentre io legata dalla maledizione aspetto,

da cordicelle segrete legata,

perché tu possa illuminare il buio e la mia traccia

per togliermi le catene ogni giorno,

perché il Grande Progettista possa dire:

è passato il tempo d’angoscia,

la tentazione fu redenzione.

Dell’Esodo è l’ora.

Tocca a Mosè eliminare l’ostacolo,

perché la Grande Acqua si fermi,

perché tu possa attraversare il fiume

per giungere laddove la parola t’attende.

Attraverso l’acqua, oltre l’acqua oscura,

attraverso l’anello d’argilla del giorno

io colpita dal tuo sguardo

maledico in qualunque campo

di battaglia tu sia,

che l’Onnipresente faccia

che il tuo cuore sia legato ai miei fianchi,

e i tuoi occhi alla mia mente, la tua brama alle

mie tracce …

Che fugga da te – ciò che il tuo cuore vuole,

ciò che vedi, diventi scuro,

ciò che desidererai con l’anima – che sia morto,

non devi scamparla, ma perché non sei ancora

venuto?

Perché non vieni?!