Come “recuperare la gentilezza” nel contesto accademico e della formazione superiore?
(cf. Fratelli tutti, nn. 222-224)

di Mauro Mantovani, sdb Università Pontificia Salesiana

“Don’t worry, be kind”. L’etica della gentilezza come chiave del successo
Tavola rotonda fra Arti e Mestieri
Associazione AssoSinderesi
27 febbraio 2021 per vedere video della conferenza

 Introduzione

All’interno di questa interessante Tavola rotonda fra Arti e Mestieri – “Don’t worry, be kind. L’etica della gentilezza” sono lieto di poter offrire un contributo cercando di rispondere alla domanda “Vale la pena essere gentile nel mondo attuale?” riferendomi in particolare al contesto accademico e della formazione superiore.

In una prima parte, dopo un veloce cenno etimologico, mi riferirò al testo della Lettera enciclica Fratelli tutti (FT) ai numeri 222-224 in cui Papa Francesco parla esplicitamente del “recuperare la gentilezza”; passerò poi ad alcune linee applicative rispetto al contesto accademico e della formazione superiore, collegandomi in particolare alle sfide provenienti dal cosiddetto “Patto Educativo Globale”, tema che anche in quanto salesiano e sacerdote mi sta particolarmente a cuore.

La promozione del dialogo intergenerazionale mi sembra infatti una chiave di lettura irrinunciabile per pensare al futuro, prossimo e più lontano, che vogliamo assicurare alla nostra società e all’intera famiglia umana.

Sappiamo tutti che il termine italiano “gentilezza” deriva dal latino gentilis nel significato di appartenente a una qualche gens, cioè all’insieme di famiglie – di solito patrizie – che avevano un comune capostipite. Non è poco, e ne ricaviamo subito che la parola indica ovviamente l’essere nobile, garbato, amabile e cortese.

Molti sarebbero gli “agganci culturali” ai quali accennare, per esempio la Summa contra “Gentiles” di Tommaso d’Aquino, o l’educazione del gentlemen e la “luce gentile” di cui parlava, più vicino a noi, John Henry Newman; non cedo tuttavia a queste tentazioni.

Mi piace ricordare invece come alla gentilezza sia stata dedicata una Giornata Mondiale, il 13 novembre di ogni anno. L’origine «pare vada ricondotta al discorso d’addio con cui il rettore di un ateneo giapponese si congedò dai suoi studenti, negli anni Sessanta, esortandoli a coltivare sempre ‘l’arte della gentilezza’ in quanto solo così ‘si può salvare il mondo’, discorso che una trentina d’anni dopo avrebbe ispirato la nascita del movimento internazionale che nel 1998 ha portato all’istituzione della Giornata» (Mazza, 2020).

Siamo oggi poco attenti ad “abitare” le parole, trattandole spesso come gusci vuoti, quasi fossero semplici suoni o segni grafici. “Gentilezza” ne è un esempio, che usiamo per indicare una qualità citatissima ma non per questo molto praticata. «Facciamoci caso: da tempo nei saluti iniziali delle lettere, e delle email, l’espressione ‘gentile’ ha surclassato il caro/a di una volta, e tra i requisiti più apprezzati in una persona, l’amabilità, il garbo, la grazia non mancano mai. Eppure nella vita quotidiana e sui media sembra dominare l’aggressività, spopolano gli urlatori, ‘vince’ chi riesce a zittire gli altri» (Maccioni, 2020).

La gentilezza d’altro canto non dev’essere però confusa con il manierismo “affettato”, con il formalismo vuoto. Essere gentili parte dal riconoscimento di se stessi e degli altri come valore, come dono, mentre il formalismo conduce alla selezione delle persone, alla proiezione di sé sull’altro, favorendo relazioni superficiali e non profonde ed autentiche. Per questo Papa Francesco afferma che «la pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un atteggiamento superficiale o borghese» (FT, n. 224).

 

  1. La gentilezza in Fratelli tutti

Entriamo direttamente nel testo dell’Enciclica. Tre dei 287 punti che compongono la Fratelli tutti sono dedicati alla gentilezza. Ci si potrebbe chiedere: «Che senso ha riservarle tutto questo spazio nel drammatico momento storico che il mondo intero sta vivendo?» (Monda).

Il documento pontificio è interamente dedicato alla fratellanza universale e all’amicizia e costruttività sociale, identificate come sfide e come “nuove frontiere” poste davanti al cammino comune della Chiesa e dell’umanità. È degno di nota il fatto che le Nazioni Unite abbiano proclamato per il 4 febbraio la Giornata Mondiale della Fratellanza umana universale a seguito della storica firma ad Abu Dhabi nel 2019 del Documento sulla fratellanza umana da parte di Papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar.

Una particolare attenzione merita sicuramente nel Documento la dimensione educativa della fraternità, affinché la fratellanza stessa non resti solo un auspicio astratto ma divenga un’esperienza vissuta nella quale le giovani generazioni sono coinvolte come protagoniste attive. Fratelli tutti per quattordici volte fa riferimento diretto all’“educazione” (ai nn. 103, 105, 114, 130, 151, 152, 167, 187 e 276), menzionando al n. 103 l’educazione alla fraternità come indispensabile affinché la fratellanza sia consapevolmente coltivata. «Che cosa accade – si chiede il Papa – senza la fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità, tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla scoperta della reciprocità e del mutuo arricchimento come valori?» (FT, n. 103) e presentando al n. 130 un accorato appello ad assicurare a tutti l’accesso regolare all’educazione.

Parlando del valore della solidarietà – descritta come «virtù morale e atteggiamento sociale, frutto della conversione personale» – Papa Francesco sostiene che essa esige «un impegno da parte di una molteplicità di soggetti, che hanno responsabilità di carattere educativo e formativo» (FT, n. 114). Questo mandato, insieme con lo sviluppo di abitudini solidali, la capacità di pensare la vita umana più integralmente, e la profondità spirituale, fa parte delle «realtà necessarie per dare qualità ai rapporti umani» (FT, n. 167).

Fratelli tutti presenta i numeri dedicati al “recuperare la gentilezza” nell’ultima parte del sesto capitolo, che non a caso ha per titolo Dialogo e amicizia sociale (nn. 198-224). Esso prende avvio con una significativa riflessione sul valore e sul senso profondo del “dialogare” e del “costruire insieme” (Il dialogo sociale verso una nuova cultura, nn. 199-205). I temi generatori – costanti nel magistero del Pontefice – della “cultura del dialogo” e della “cultura dell’incontro” sono indiscutibilmente le colonne portanti dell’intero discorso, specie ai nn. 215-221, dedicati ad “Una nuova cultura”: L’incontro fatto cultura (nn. 216-217), e a Il gusto di riconoscere l’altro (nn. 218-221).

Papa Francesco inserisce qui una citazione musicale dal disco Um encontro no Au Bon Gourmet (Rio de Janeiro, 2 agosto 1962) in cui l’autore, Vinicius de Moraes, nella Samba da Bênção, canta «la vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita». E il Papa così continua: «Parlare di ‘cultura dell’incontro’ significa che come popolo ci appassiona il volerci incontrare, il cercare punti di contatto, gettare ponti, progettare qualcosa che coinvolga tutti. Questo è diventato un’aspirazione e uno stile di vita. […] Quello che conta è avviare processi di incontro, processi che possano costruire un popolo capace di raccogliere le differenze. Armiamo i nostri figli con le armi del dialogo! Insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro!» (FT, nn. 215-217).

È proprio nella prospettiva del “gusto” di riconoscere l’altro, e nella capacità abituale di riconoscergli “il diritto di essere se stesso e di essere diverso”, che Francesco introduce le categorie del “patto sociale” e del “patto culturale” , parlando espressamente di un «riconoscimento fattosi cultura» (FT, n. 218), e del “vero riconoscimento” «che solo l’amore rende possibile e che significa mettersi al posto dell’altro per scoprire che cosa c’è di autentico, o almeno di comprensibile, tra le sue motivazioni e i suoi interessi» (FT, n. 221).

Siamo così arrivati, finalmente, ai punti in cui Papa Bergoglio afferma che «è ancora possibile scegliere di esercitare la gentilezza. Ci sono persone che lo fanno e diventano stelle in mezzo all’oscurità. San Paolo menzionava un frutto dello Spirito Santo con la parola greca chrestotes (Gal 5,22), che esprime uno stato d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta. La persona che possiede questa qualità aiuta gli altri affinché la loro esistenza sia più sopportabile, soprattutto quando portano il peso dei loro problemi, delle urgenze e delle angosce. È un modo di trattare gli altri che si manifesta in diverse forme: come gentilezza nel tratto, come attenzione a non ferire con le parole o i gesti, come tentativo di alleviare il peso degli altri. Comprende il ‘dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano’, invece di ‘parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano’. La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici» (FT, nn. 222-224).

La proposta di “recuperare la gentilezza” è dunque fondamentalmente rivolta a tutti, come espressione “alta” di umanità, di “qualità umana”, e oggi vale pertanto a tutte le latitudini.

La gentilezza in verità «non è amore per il quieto vivere ma per l’inquietudine dell’altro che ho di fronte, non è debolezza ma forza potente che rovescia la logica del potere e la soppianta con quella del servizio. Una forza che è anche resistenza» (Monda, 2020).

Una forza e resistenza che, come in varie occasioni non si stanca di ripetere il Papa, si esprime paradossalmente attraverso tre semplici parole: “permesso”, “grazie”, “scusa”. Anche a conclusione del n. 224 dell’Enciclica leggiamo: «Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire ‘permesso’, ‘scusa’, ‘grazie’» (FT, n. 224).

  1. Esercitare la gentilezza nel contesto accademico e della formazione superiore

Come esercitare allora la gentilezza, questa …“cosa strana” che non è certo di moda, «oggetto sconosciuto o almeno dimenticato nel frenetico mondo contemporaneo» (Monda, 2020), nel contesto accademico e della formazione superiore? Eppure, «la gentilezza è la lingua che il sordo ascolta e il cieco vede, diceva Mark Twain, ed un proverbio russo dice: ‘Una parola gentile è come un giorno di primavera. […] Ci sono [infatti] delle parole che curano e delle parole che feriscono, delle parole che penetrano il cuore come una freccia d’amore e delle parole che come coltelli possono ammazzare una persona» (Antenucci, 2020).

Non è comunque raro che nel mondo della cultura, che dovrebbe esserne infatti la sede ideale, quasi la “culla” e la custodia, «ogni tanto – come nota ancora Papa Francesco – si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza. Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è capace di creare quella convivenza sana che vince le incomprensioni e previene i conflitti» (FT, n. 224).

Nuovi stili di vita e di relazione possono essere sperimentati e crescere proprio lì dove si produce formazione e cultura, nella condivisione e nella convergenza dei saperi e delle competenze, e prima di tutto delle persone e della loro azione coordinata e progettuale in un “noi” che non svilisce ma valorizza le peculiarità di ciascuno.

In questo frangente storico che non segna solo un’epoca di cambiamento, ma un vero e proprio “cambiamento d’epoca”, è evidente che le crisi che attraversiamo, siano esse socio-sanitarie o economico-finanziarie, hanno in radice una forte dimensione etica e antropologica e necessitano dunque di una risposta che si collochi a livello profondamente culturale, coinvolgendo la persona umana nella sua identità individuale e relazionale, e dunque nella sua responsabilità verso se stessa e ciò che va oltre se stessa, verso gli altri e la nostra “casa comune”.

Papa Paolo VI nella Populorum progressio affermava nell’ormai lontano 1967 che il mondo «soffre per mancanza di pensiero» (n. 85); Giovanni Paolo II sfidava il pensiero del terzo millennio a sviluppare «una visione unitaria e organica del sapere» (Fides et ratio, n. 85); Benedetto XVI ha esortato ad “approfondire la relazione” per capire fino in fondo cosa significa essere un’unica famiglia umana (cfr. Caritas in veritate, n. 53); papa Francesco è arrivato nella Laudato si’ ad invocare addirittura «una coraggiosa rivoluzione culturale» (n. 114). C’è bisogno di lavorare, credo, a questo livello di profondità, perché – citando ancora il Papa – «quella che oggi emerge di fronte ai nostri occhi è ‘una grande sfida culturale, spirituale ed educativa che implicherà lunghi processi di rigenerazione’» (Francesco, Veritatis gaudium, Proemio, n. 6), e «non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare questa crisi e c’è bisogno di costruire leadership che indichino strade, cercando di rispondere alle necessità delle generazioni attuali includendo tutti, senza compromettere le generazioni future» (Laudato si’, n. 53).

Il discorso sulla gentilezza assume dunque il suo significato formativo, e direi anche performativo, quando – dal momento che presuppone e favorisce la reciproca stima e il rispetto vicendevole – si fa cultura, e così – come scrive Papa Francesco – «in una società trasforma profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l’esasperazione distrugge tutti i ponti» (FT, n. 224).

A mio avviso, parlando in particolare del mondo accademico e della formazione superiore, spesso molto competitivo e autoreferenziale, l’istanza della gentilezza va collocata a questo livello, per evitare di considerare tutto questo discorso come un mero monito, abbastanza frivolo se non inutile, ad essere “un po’ più buoni”.

Non parlo qui della grande portata che il Papa attribuisce al tema fortemente biblico e antropologico del “patto”, dell’“alleanza”, ma è doveroso, credo, citare il “lancio” e la “ripresa” del Patto Educativo Globale e il suo chiaro appello universale ad essere protagonisti e corresponsabili nella costruzione e nell’orientamento della vita sociale. «Non dobbiamo aspettare tutto da coloro che ci governano, sarebbe infantile. Godiamo di uno spazio di corresponsabilità capace di avviare e generare nuovi processi e nuove trasformazioni. Dobbiamo essere parte attiva» (Francesco, Videomessaggio per il rilancio del Patto Educativo Globale, 15 ottobre 2020).

Nei Messaggi del 12 settembre 2019 e del 15 ottobre 2020 sul Patto Educativo, utilizzando addirittura l’espressione “catastrofe educativa”, Papa Francesco ha invitato a «riconoscere in maniera globale che ciò che è in crisi è il nostro modo di intendere la realtà e di relazionarci tra noi. In tale contesto vediamo che non bastano le ricette semplicistiche né i vani ottimismi. Conosciamo il potere trasformante dell’educazione: educazione è scommettere e dare al presente la speranza che rompe i determinismi e i fatalismi con cui l’egoismo del forte, il conformismo del debole e l’ideologia dell’utopista vogliono imporsi tante volte come unica strada possibile» (Videomessaggio, 15 ottobre 2020). In questa prospettiva si parla del “villaggio dell’educazione” come luogo di scambio delle buone pratiche, con l’intento di significare in questo modo il cambiamento su scala planetaria volto a promuovere la partecipazione di tutti, compresi i bambini e i ragazzi, all’istruzione, e l’inclusione dei più vulnerabili e marginali. L’educazione infatti non è semplicemente istruzione: è piuttosto l’arte di formare la persona affinché possa vivere una vita piena, libera e dignitosa.

Jorge Mario Bergoglio è stato a lungo insegnante, e anche da Vescovo ha preso a cuore il mondo dell’educazione con vari discorsi e iniziative: essa è dunque “al centro” del suo pensiero e della sua azione, com’è al centro della vita e dell’azione della Chiesa. Per Papa Francesco «l’educazione non è solo una tra le tante componenti dell’esperienza umana, ma è la modalità con cui la vita umana stessa cresce e si ‘umanizza’, si compie ed evolve verso il suo fine ultimo» (Diaco, 2018, p. 6).

Nei suoi interventi concernenti l’educazione il Papa richiama spesso l’unità multiforme della persona, fatta di pensiero, sentimento e azione, e invita esplicitamente ad «integrare i saperi della testa, del cuore e delle mani» e a «sviluppare per i giovani spazi per la migliore cultura […], perché i giovani ne hanno diritto» (Christus vivit, nn. 222-223). Appare inoltre evidente nel suo pensiero – come nota E. Diaco – «l’importanza dell’esempio e della testimonianza personale […]; l’invito a tenere ugualmente aperto l’orizzonte di un’azione educativa che non trascuri nulla di ciò che è autenticamente umano» (Diaco, 2018, p. 7). È significativa anche l’immagine spesso utilizzata di un piede fermo e di un altro che avanza, per unire le indisgiungibili dimensioni della stabilità e della creatività.

Per questo investire oggi sull’educazione è fondamentale, anche negli ambienti più difficili. Ci vuole presenza, vicinanza, facendo sentire ai giovani che sono coinvolti, anzi che sono loro i principali protagonisti del proprio percorso di crescita e maturazione. I Salesiani, in questa prospettiva, si rifanno all’umanesimo di San Francesco di Sales e credono nelle potenzialità, naturali e soprannaturali, di ogni giovane. Il sistema educativo di don Bosco è fatto di ragione, religione e amorevolezza: una ragione ben formata, per comprendere in profondità la realtà, i valori, ciò che è essenziale; il vissuto di fede, che completa la persona nella sua apertura al trascendente e fa sentire Dio non come un ostacolo ma come una presenza promuovente nella direzione del vero, del buono e del bello, di ciò che conta, non inganna e non passa; infine, last but not least, l’amorevolezza, perché i giovani devono essere non solo amati, ma sapere di essere amati, per aprirsi a loro volta ad un’esperienza di reciprocità e di dono. Al centro c’è dunque il giovane, ma – ancor più – il rapporto io-tu che trova il suo senso più vero all’interno di un noi che in qualche modo già precede, anche se va reso via via sempre più consapevole e scelto deliberatamente.

Per questo nelle nostre opere, dall’università agli oratori, fino al lavoro con i ragazzi di strada, si cerca di offrire l’esperienza della “casa” che accoglie, della “parrocchia” come luogo dove esprimere la propria fede, del “cortile” dove incontrarsi tra amici, e della “scuola” che educa alla vita. Ciascuno di questi ingredienti, anche se possono – anzi devono – certamente differenziarsi le loro proporzioni o la loro visibilità a seconda del tipo di esperienza concreta, non dovrebbe tuttavia mai mancare.

Il compito dell’educatore è anche di essere, gentilmente, un “provocatore”, da provocazione: deve far venir fuori anzitutto la chiamata (vocatio) ad andare oltre il banale, lo scontato e il superficiale. La parola latina studium sappiamo che significa “passione”: appassionare vuol dire provocare in positivo. Passione per ciò che vale, per lasciarsi sfidare da ciò che ci supera e nel contempo ci perfeziona, verso ideali o obiettivi che meritino l’attesa e lo sforzo, in vista della trasformazione permanente in meglio di se stessi e della società. Il nostro impegno è allora creare le condizioni perché un giovane possa individuare ciò che è veramente degno di interesse, educando anche al pensiero critico e all’approfondimento.

Papa Francesco collega spesso l’educazione alla speranza. Educare è “globalizzare la speranza”, estendendo via via gli orizzonti del bene comune fino all’intera famiglia umana e coinvolgendo così anche le generazioni future in un “patto intergenerazionale” di solidarietà universale. È assumere il grande progetto della “fioritura” umana integrale (human flourishing) mettendo al centro la persona concreta in un quadro di relazioni che costituiscono una comunità viva, legata a un destino comune.

Tutto ciò assegna un compito irrinunciabile soprattutto agli adulti, in un momento in cui molti di loro sembra abbiano rinunciato ad essere generativi, ad essere adulti. I giovani per esempio dovrebbero “vedere” che sposarsi e avere dei figli è qualcosa di bello, che il lavoro veramente nobilita l’uomo, e incontrare persone che dimostrino che si può essere felici anche con scelte radicali quali per esempio il dono di sé a Dio e agli altri in una vocazione consacrata, o mantenendo la parola data. Questo è il modo più efficace, ci direbbe ancora Papa Francesco, di ripetere ai giovani l’invito a “non farsi rubare la speranza”.

  1. Gisotti nota che il binomio “giovani e anziani, nonni e nipoti” a partire dai primi mesi del Pontificato di Francesco – si veda l’affermazione dell’importanza dell’incontro e del dialogo tra le generazioni, soprattutto all’interno della famiglia, nel Discorso tenuto a Rio de Janeiro il 26 luglio 2013 – è diventata una delle costanti del magistero del Papa attraverso gesti, discorsi, udienze e “fuori programma”, in particolare nei viaggi. Sono loro, i giovani e gli anziani, che «insieme, e solo se insieme, possono avviare cammini e trovare spazi per un futuro migliore. […] Per Francesco, il terreno d’incontro tra i giovani e gli anziani è quello dei sogni. Per certi versi, sembrerebbe una convergenza sorprendente quasi improbabile. Eppure, come anche l’esperienza vissuta a causa della pandemia ci ha mostrato, è proprio il sogno, la visione del domani, che ha tenuto e tiene uniti coloro, nonni e nipoti, che sono stati improvvisamente separati aggiungendo un ulteriore fardello al gravame dell’isolamento. Del resto, questo centrarsi sulla dimensione del sogno è stato lungamente meditato dal Papa ed ha un profondo radicamento biblico. Francesco ama, infatti, più volte ricordare quanto ci insegna il profeta Gioele in quella che, dice, ‘ritengo essere la profezia dei nostri tempi: “I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni” (3,1) e profetizzeranno’. Chi se non i giovani, si chiede il Papa, possono prendere i sogni degli anziani e portarli avanti?» (Gisotti, 2020).

Francesco per questo ha esortato a «difendere i sogni come si difendono i figli», notando che «le chiusure non conoscono gli orizzonti, i sogni sì». Non possono esserci infatti sogni senza radici, né radici senza sogni: l’uno è per l’altro. Ciò vale certamente oggi più che in passato, perché urge una “visione d’insieme” che non lasci nessuno escluso.

Come nota ancora A. Gisotti, «per il Papa […] la tensione tra vecchi e giovani ‘deve sempre risolversi nell’incontro’. Il giovane, ribadisce, ‘è germoglio, fogliame, ma ha bisogno della radice; altrimenti non può dare frutto. L’anziano è come la radice’. […] Agli anziani di oggi […] Francesco chiede un surplus di coraggio. Forse quello più arduo: il coraggio di sognare. ‘Volgete lo sguardo dall’altra parte’ – esorta il Pontefice che crede nella “saggezza del tempo” – ‘ricordate i nipoti e non smettete di sognare. È questo che Dio vi chiede: di sognare’. Questo che stiamo vivendo, tra timori e sofferenze, ci dice con forza il Papa, ‘è il tempo propizio per trovare il coraggio di una nuova immaginazione del possibile, con il realismo che solo il Vangelo può offrirci’. Questo è il tempo in cui la ‘profezia di Gioele’ può diventare realtà» (Gisotti, 2020).

Davvero i giovani faranno profezie se gli adulti faranno sogni, e non c’è nulla di più utile per un giovane che veda degli adulti che continuano a sognare.

È proprio di questo che abbiamo bisogno, a partire dal nostro paese. Così non a caso si è espresso recentemente il card. G. Bassetti: «Non pensiamo astrattamente ai bambini, alle famiglie, ai giovani… Operiamo con loro. Invitiamoli a mettersi in gioco, a elaborare idee e progetti […]. Non limitiamoci a mettere in evidenza alle nuove generazioni le fatiche, indiscutibili, di questi giorni, ma aiutiamoli a leggere in profondità quanto stanno vivendo. Riconosciamo la loro resilienza, comunichiamo loro la convinzione che anche questo è un tempo prezioso per imparare gli elementi essenziali della vita umana. Anche questo è un tempo per crescere, per apprezzare la vita, per prenderci cura di essa, per costruire futuro. Non è tempo perduto, se è tempo di semina e di costruzione» (Bassetti).

Assai significativo anche quanto affermato dallo stesso Papa Francesco il 7 febbraio 2021: «La nostra società va aiutata a guarire da tutti gli attentati alla vita, perché sia tutelata in ogni sua fase. E mi permetto di aggiungere una mia preoccupazione: l’inverno demografico italiano. In Italia le nascite sono calate e il futuro è in pericolo. Prendiamo questa preoccupazione e cerchiamo di fare in modo che questo inverno demografico finisca e fiorisca una nuova primavera di bambini e bambine» (Francesco, Angelus).

L’educazione universitaria e la formazione superiore aprono alla speranza se generano e ispirano nuovi orizzonti, costruendo nuovi paradigmi capaci di rispondere alle sfide e alle emergenze che attraversiamo. La sfida culturale ed educativa, oggi cruciale, mostra l’urgenza di rivalutare la relazione, e di far crescere a tutti i livelli la prospettiva del “noi inclusivo”, sia sincronicamente sia diacronicamente. Il proprium dell’essere umano sta infatti nella capacità di coinvolgersi attivamente nella responsabilità del pensiero, nelle scelte di vita buona, nel “prendersi cura” di se stessi, degli altri e del creato, nel dialogo interpersonale, nella costruttività e nell’impegno sociale, nell’apertura alla trascendenza.

Non solo “teste riempite”, quindi, ma “persone complete”, e per questo anche autenticamente gentili.

 Conclusione

Recuperare la gentilezza oggi può fare davvero la differenza. Significa fondamentalmente pro-attività, “vivere per-”: è difficile ma non impossibile; è il non lasciarsi determinare dalle emozioni passeggere del momento o dai pensieri istintivi, ma dal senso della propria vita e delle proprie scelte più profonde, e così riuscire ad essere sempre se stessi “per l’altro”, in un noi, al di là di tutto.

È questo il vero “interesse”, dal latino interesse, cioè essere dentro, stare, “abitare in mezzo”, così come ha scelto di fare Dio con l’umanità. Per insegnarci a servire con disinteresse, nell’interesse di tutti. In fondo è quanto sta dietro il concetto stesso di “sinderesi”, come capacità di discernimento morale dell’animo umano, e muove la cultura e le esperienze di cui l’Associazione AssoSinderesi si fa portatrice.

Così, al termine di questo nostro percorso, non risulta forse troppo ardito, anzi diventa quasi naturale, collegare il termine “gentilezza”, che etimologicamente si riferisce ad un insieme di famiglie che hanno un medesimo capostipite, alla comune fratellanza umana, alla generatività educativa e al dialogo tra le generazioni. Anche la Sacra Scrittura splendidamente ce lo ricorda con l’espressione “le dor vador”, “di generazione in generazione”.

 Assosinderesi presenta il Magnifico rettore il Dott. Mauro Mantovani  leggi articolo

Per vedere i video delle tre giornate di "maratona sulla gentilezza"

Prima giornata

Seconda giornata

Terza giornata

 Bibliografia di riferimento

Antenucci E., Il vocabolario di Papa Francesco / La gentilezza, in PapaBoys (12 novembre 2020)

Bassetti G., Introduzione ai lavori del Consiglio permanente della Conferenza Episcopale Italiana, 26 gennaio 2021.

Benedetto XVI, Caritas in veritate, Città del Vaticano, 29 giugno 2009.

dal Covolo E. – Mantovani M. – Pellerey M., L’Università per il Patto Educativo. Percorsi di studio, LAS, Roma 2020.

Diaco E. (ed.), L’educazione secondo Papa Francesco, Dehoniane, Bologna 2018.

Francesco, Angelus, Città del Vaticano, 7 febbraio 2021.

Francesco, Christus vivit, Loreto, 25 marzo 2019.

Francesco, Fratelli tutti (FT), Assisi, 3 ottobre 2020.

Francesco, Il patto educativo globale. Una passione per l’educazione, a cura di A.V. Zani, Morcelliana, Brescia 2020.

Francesco, Laudato si’, Città del Vaticano, 24 maggio 2015.

Francesco, Messaggio per il lancio del Patto Educativo Globale, Città del Vaticano, 12 settembre 2019.

Francesco, Veritatis gaudium, Città del Vaticano, 7 dicembre 2018.

Francesco, Videomessaggio in occasione dell’Incontro promosso e organizzato dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica: “Global Compact on Education. Together to look beyond”, Città del Vaticano, 15 ottobre 2020.

Giovanni Paolo II, Fides et ratio, Città del Vaticano, 14 settembre 1998.

Gisotti A., Il giovani, gli anziani e la profezia di Gioele, in Vatican News (24 luglio 2020).

Maccioni R., Dentro i contenuti della “Fratelli tutti”. La “rivoluzione” della gentilezza, in Avvenire (7 ottobre 2020).

Mazza S., Ritrovare la gentilezza e saperla conservare, in Avvenire (21 novembre 2020).

Monda A., La virtù cristiana della gentilezza. Una riflessione a partire da “Fratelli tutti”, in L’Osservatore Romano (30 novembre 2020).

Paolo VI, Populorum progressio, Città del Vaticano, 26 marzo 1967.

Spadaro A., “Come tra i fiori la rosa, così regnerà Filadelfia, città dei fratelli” [Introduzione], in Francesco, Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale, Libreria Editrice Vaticana – Marsilio, Città del Vaticano – Venezia 2020.

Zani A.V., Reinventare l’educazione oggi. Il contributo dell’Università. Prolusione in occasione dell’Inaugurazione del nuovo anno accademico della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium”, Roma, 26 novembre 2020.