LE RECENSIONI DI ORAZIO ANTONIO BOLOGNA

ENZO BACCA

SIBILLA

BREVE NOTA ESEGETICA

Anche uno sguardo fugace sul complesso e variegato panorama della poesia contemporanea invita a prendere in esame forme ed espressioni artistiche, che, non di rado, lasciano col fiato sospeso sia per il modo, con il quale il Poeta si pone davanti alla realtà, la interpreta e pone al lettore le sue impressioni, sia per la molteplicità delle forme non sempre rispondenti ai requisiti del dettato poetico. La Poesia, anche quella apparentemente banale e priva di senso, nasce da stimoli, riflessioni, stati d’animo, che a volte si stenta non solo a comprendere, ma addirittura a introiettare, per cercar di carpirne i significati più reconditi, i messaggi veicolati da sintagmi a volta semplici, a volte più complessi; da lessemi, sempre più usuali e triti, ai quali solo pochi intelletti riescono a conferire nuove estensioni semantiche; da sintagmi non sempre pertinenti al dettato poetico, i quali, mentre si dipanano nel verso e dànno vita alla sequenza narrativa, racchiudono le più intime riflessioni e confessioni del Poeta; da fonemi, che si uniscono, si separano, si intrecciano per formare una catena semantica ora semplice, ora complessa, e cercano di avvincere il lettore con l’armonia interna dettata da ancestrali flussi concettuali, nei quali il tempo, inteso soprattutto come categoria, assume per lo più il ruolo di protagonista.

Tra i numerosi volumi di poesia, che vengono oggi messi a disposizione di un pubblico sempre più vasto, ma di rado più attento, pochissimi sono quelli validi e tali da essere letti, meditati, proposti per pensiero, stile, esemplarità. Tra questi un posto di primissimo piano è assunto da Sibilla, uscito, qualche anno addietro, dalla brillante penna di Enzo Bacca. Il lettore poco attento, però, non di rado si lascia ammaliare dal bell’aspetto della copertina e, sovente, non va oltre. Con questa breve nota, invece, si cerca di penetrare nella genesi del volume, di gettare un fascio di luce su alcune liriche e decifrare mediante un’attenta ed esauriente analisi letteraria e filosofico-semantica il messaggio, che intende veicolare.

È superfluo aggiungere che Enzo Bacca nel frastagliato ambiente poetico italiano è un esponente di altissimo livello; che la sua produzione lirica è costantemente apprezzata anche dai lettori più esigenti, dai critici più raffinati, dai poeti più sensibili; che la riflessione sul tempo e l’acuta analisi della psiche umana raggiunge per lo più mete ignote a molti sedicenti poeti. Enzo Bacca, infatti, in ogni lirica riversa e interpreta non solo il personale travaglio interiore e lo pone come paradigma, ma cerca anche, e soprattutto, di penetrare nella coscienza del lettore, di scandagliarne i moti più intimi, di coglierne gli aneliti personali e universalizzarli con un linguaggio piano, curato, espressivo. Anche quando la materia gli offre il destro, Enzo Bacca non si abbandona mai a vuota retorica, a revocazioni asfittiche, ad analisi banali, a osservazioni scontate, tipiche d’una poesia frettolosa, chiassosa, poco attenta alle intime esigenze della psiche, colta e proposta nella sua realtà ora dolce, ora cruda. Alla sfuggente e, a volte, volutamente celata diacronia, segue sempre una velata riflessione sul tempo, sulla sua fugacità, sui cambiamenti, che opera nella natura e, in modo particolare, nella psiche, generatrice di commozione, fonte di emozioni, sede di pulsioni vitali, che con il loro aspetto mediale prefigurano nella mente del Poeta e la genesi e la palingenesi dell’essere pensante e scrivente.

La pregevole silloge, per l’intimo e intrinseco messaggio racchiuso in ogni carme, non a caso è intitolata Sibilla. Il titolo altamente evocativo trasporta il lettore in un tempo lontano solo in apparenza: il Poeta, infatti, raccoglie e serba nella fucina interiore il passato tanto remoto quanto prossimo, per riproporlo al presente nella paradigmatica funzione paideutica, la quale, propria della Poesia, indossa di continuo la veste della Sibilla. E sarebbe un errore, se non fosse così: la Poesia svilirebbe il suo stesso essere, se non proponesse a ogni lettura quel quid, che accende la riflessione e ingenera pulsioni verso la fictio, inverata dall’esperienza paradigmatica dell’ens cogitans.

Ripercorrere in breve la storia etimologico-semantica dell’arcano e abusato lessema spiega bene perché l’Autore ha voluto richiamare, e riproporre, un titolo così evocativo, soprattutto per quanti si sono nutriti di studi classici, dai quali assumono ancora paradigmi di vita e di pensiero. Collocata all’incrocio tra il sacro e il profano, tra il passato e il futuro, tra l’io parlante e il tu in stato di ascolto, la Sibilla costituisce il logos chiarificatore del passato e prefigurazione del futuro, tra il fu e il sarà: si pone al centro, tra due categorie temporali in eterna e vitale opposizione.

Ancora oggi la Sibilla come persona fisica, obliterando le facoltà profetiche e oracolari, è considerata soprattutto il tramite necessario, che si interpone tra l’umano e il divino, tra il caduco e l’eterno, tra il mortale e l’immortale, tra il vero e il falso. La divinità, della quale è sacerdotessa e voce fisicamente intesa, manifesta all’interpellante il suo volere mediante versi non sempre facilmente intellegibili. Il concetto di Sibilla secondo l’interpretazione dello Schwyzer si snoda attraverso il concetto di vergine profetica di patente origine dionisiaca, non senza forti influenze sciamaniche, tipiche delle popolazioni più antiche, nelle quali la funzione mantica della donna avveniva sotto gli effetti dell’ebbrezza. In questa specifica funzione la Sibilla si riallaccia a concetti accadici, diffusi nel corso dei millenni nel bacino mediterraneo. Sibilla, infatti, nell’antica lingua accadica significa vecchia testimone di dio, e non solo, perché nel complesso sviluppo semantico la vergine, che nel suo antro è assalita e posseduta dallo spirito del demone, può significare anche possesso del demone. A questo punto il riferimento alle Baccanti di Euripide è d’obbligo: Virgilio, infatti, Aen., VI, 77-78 scrive: in antro bacchatur: invasata dal dio la Sibilla cumana si dimena nell’antro, Apollo le invade il corpo e le ispira il sacro furor, che non è dissimile da quello delle baccanti. Ma il termine Sibilla, ancora dall’accadico, significa anche colei, che si trova nel luogo arcano, identificato col virgiliano limen, linea di demarcazione tra l’interno della grotta, sede della Sibilla e del Dio, che la possiede, e l’esterno, destinato a chi consulta il dio, per conoscere gli esiti futuri della sua vita.

Tutti questi significati, non esclusi quelli varroniani, si includono e si completano a vicenda e conferiscono al sintagma la completezza e la complessità, che racchiude e disvela a quanti per la prima volta si imbattono nel complesso mondo della mistica greco-romana e della trascendenza la complessità del personaggio e della divinità.

Il lettore di oggi, certamente molto informato su quanto esposto, si chiede il motivo, che mi ha indotto a riferimenti così lontani per tempo, spazio, cultura. Trova la risposta tra le pregnanti liriche contenute nel pregevole volume, che Enzo Bacca ha scientemente intitolato Sibilla. Il titolo non è, come tanti, o la maggior parte, ammaliante, ma cela nel suo intimo significato gli elementi fondanti, la vis poetico-espressiva di un’arte permeata da allusioni, traboccante di elementi afferenti allo spazio sociale, politico, civile, erotico. Costituiscono, questi, gli elementi, che concorrono tutti a formare l’unità intrinseca della vita e, insieme con l’uomo, la percorrono dall’inizio alla fine, la permeano nel suo eracliteo scorrere o, forse meglio, nell’oraziano alius et idem, sempre lo stesso, ma diversa da uomo a uomo, da un momento, da un’epoca all’altra. Nessuno, forse, meglio di Enzo Bacca con questa silloge incarna e proietta all’esterno il notissimo aforisma di Terenzio: homo sum: humani nihil alienum a me puto. Con queste parole l’umanesimo latino già nel II sec. a.C. affermava una verità, già ampiamente nota nel mondo greco da almeno quattro secoli: sono un essere umano e tutto ciò che appartiene all’Uomo non mi è estraneo, è parte fondamentale del mio essere psico-fisico. Nel sinolo costituita dall’anima e dal corpo, uniti da un eros primordiale inscindibile e destinato a durare fino a quando la psychè, l’anima, non lascia il soma, il corpo, per ritornare due elementi a sé stanti, liberi di costituire un altro essere, con le medesime caratteristiche e vivere esperienze, che, probabilmente, nessuno è in grado di immaginare e scrivere. Questo è il motivo, che ha spinto Orazio a cogliere e vivere intensamente ogni momento della vita: carpe diem. Non credo che questo sia un messaggio prettamente epicureo, se gli scrittori cristiani non cessano di esortare il battezzato a non sciupare neppure un istante della vita: è, del resto, l’evangelica parabola dei talenti.

Questi elementi, attinti da fonti diverse e coagulati nell’unità psico-fisica del Poeta, dànno, di volta in volta, vita a componimenti di grande intensità lirica, per l’imperituro contenuto, appartenente all’Uomo, essere singolare e, nel contempo, universale; conferiscono a ogni singolo componimento un punto di arrivo come precipitato di esperienze portate a termine e punto di partenza per un diverso modo di vivere, di interpretare l’esistenza, di vivere il dialogo erotico in modo che travalichi l’angusto cerchio costituito solo dall’io  dal tu, per coinvolgere nel fremito dell’estasi anche l’altro, parte inscindibile del consorzio umano.

Non è, questo, un puro gioco dialettico, che un gimnosofista potrebbe sciorinare lì per lì, ma un’accorta e assidua assimilazione di elementi fondanti, per una cultura, che parli a tutti gli uomini. Ogni lettore può individuare gli archetipi, la tessitura narrativa, le non poche agnizioni di lettura, che si trovano in autori, che vanno da Dante a quelli dei nostri giorni, ma pochi riescono a scorgere la solida formazione filosofica, che prende le mosse da Bergson per arrivare, accompagnato da Edmund Husserl e da Edith Stein, alle attuali esperienze culturali, non sempre a pieno e meritamente condivise.

Nella nutrita silloge un luogo di rilievo è dato dall’empatia, termine tecnico-filosofico, inteso come capacità di interagire pienamente con l’altro sul piano delle emozioni, dei comportamenti e dello stato d’animo. Il lessema deriva dal greco empàtheia, composto da en, dentro, e pathos, sofferenza o sentimento. Nell’antichità era adoperato soprattutto per gli spettacoli teatrali, durante i quali tra attori e spettatori si instaurava un rapporto emozionale di fattiva partecipazione. Enzo Bacca, però, sa bene che il termine è stato coniato verso la fine dell’Ottocento Robert Vischer, studioso di arti figurative, il quale, come si legge in Giusti – Locatelli, intendeva la «capacità della fantasia umana di cogliere il valore simbolico della natura».  Questo termine, quindi, fu concepito per designare la capacità, innata nell’uomo, di sentire dentro e di con-sentire, di avere cioè una chiara percezione della natura sia interna che esterna del nostro essere fisico in rapporto tanto verso l’ego quanto verso il tu dell’altro. Con questo termine Enzo Bacca rappresenta il modo di proiettare i sentimenti, che dall’ego narrante passano al tu, che ascolta e recepisce e rielabora in maniera logico-affettiva il messaggio veicolato dal corpo o da una delle sue parti. In questa particolare dimensione filosofica ed estetica Bacca attinge a piene mani dal Lipps. Lo studioso, però, non si ferma all’aspetto estetico, ma estende il termine empatia alla capacità di essere in armonia con un’altra persona, della quale si colgono gli stati d’animo, i sentimenti e le emozioni, per vivere in piena sintonia con se stessi e con gli altri.

Sono, questi, solo alcuni aspetti della complessa architettura e alchimia, che caratterizzano Sibilla e conferiscono al florilegio quel tocco di unicità, tipico d’un capolavoro destinato a durare a lungo. Guidato e sorretto da così profonde pregnanze filosofiche, interpreta e propone Natura ed Eros come elementi portanti e fondanti dell’ens homo, inteso in tutta la sua complessità semantica. Nell’eterna e alterna lotta tra esse ed existere, durante la quale si alterna la vis amans, la vis generans, la vis mortalis Bacca intesse un inno ad Eros, inteso nella sua espressione ora panica, ora priapea, ora spirituale e trascendente, per giungere al verbum per eccellenza, all’Amore, del quale avverte ed esterna in maniera magistrale i sintoni, le pulsioni, il potere fino al totale annientamento dell’ego nel tu. A questi fremiti, a questi susurri sommessi di dannunziana memoria, che si spengono nel folto d’una natura ancora vergine, subentra l’ens rationale, che con i colori, i rumori, il vocio, il fruscio del vento spegne a poco a poco l’eco dei sentimenti, che si perdono nel buio, oltre l’orizzonte.

Non manca in questa silloge di Bacca il topos del viaggio, nel quale il poeta racchiude gli elementi portanti della sua produzione artistica. Si coglie, sotto questo aspetto particolare, anche la dimensione religiosa di Sibilla, che sul piano soprattutto narrativo costituisce un cardine, sul quale ruota l’esistenza dell’homo inteso come ens soggetto alla nascita e alla morte, come tutto il creato che lo circonda. Per cui nel corso della lettura si incontrano il sogno, l’attesa e, in modo particolare, la speranza, nella quale si spegne l’anelito terreno in vista dell’eterno gaudio nella gioia senza fine. Letta con quest’ottica particolare l’unione d’amore non è che un anticipo dell’unione finale con l’ens a se, per raggiungere il quale Thanatos costituisce il tramite necessario, un diverso tipo di Eros, che spalanca le porte ad un Amore senza fine. I luoghi dell’anima per questo viaggio dagli inizi incerti costituiscono i prodromi per scoprire nella sua interezza l’Aletheia, che sfocia nell’infinità dell’Eterno, nel quale il tempo perde la sua consistenza davanti all’eterno presente.

Per poter comprendere fino in fondo la poetica di Enzo Bacca bisogna saper cogliere in ogni lirica l’esatta dimensione temporale, per lo più espressa al presente, per poter proiettare il lettore nel futuro, tempo della speranza. Il presente, però, è sempre preceduto dal passato, del quale conserva ricordi, suggestioni, stimoli, ormai svaniti per sempre. Il tempo nella silloge denota sempre la percezione e la rappresentazione del modo nel quale gli eventi si succedono; evidenzia il rapporto di contemporaneità, anteriorità, posteriorità. Alla grandezza o dimensione fisica del tempo nella silloge si affianca e, a poco a poco, si sostituisce la dimensione filosofica, la quale imprime al carme e alla complessa architettura lirica nella sua interezza la collocazione percettibile dell’uomo e degli eventi inseriti nel continuo scorrere eracliteo, mediante l’ininterrotta sequenza costituita dal passato – presente – futuro.

Nella stesura delle liriche evidente è la presa di coscienza da parte del Poeta di come questa categoria influenzi il pensiero, le azioni, la scelta delle occasioni. L’inesorabile trascorrere del tempo caratterizza fenomeni e cambiamenti sotto l’aspetto materiale e spaziale e dà vita, di volta in volta, a una nuova esperienza sia sotto l’aspetto sensibile che metasensibile. Mediante la concreta e l’attenta osservazione poetica tutto nelle liriche si nuove in uno spazio, che la mente descrive e circoscrive a livello umano e sensoriale. Al dato obiettivo dell’esperienza diretta subentra a poco a poco la coscienza del mutamento e dal presente, che richiama quanto è accaduto nel passato, il Poeta proietta nel futuro quanto rivive nella sua intensità catartica. La poesia si coglie intera nel suo divenire, nella forma imperfetta percepita e proposta come futuribile. Quest’asserzione nella sua ovvietà non deve trarre in inganno il lettore, perché alla momentanea fissità del presente subentra in modo impercettibile il divenire con la sua diversità.

Alla staticità della sincronia, che introduce il lettore all’unicità dell’evento, subentra la diacronia, mediante la quale l’esperienza passa in maniera impercettibile da uno stato all’altro. In questo passaggio è possibile l’agnizione di letture, di stimoli, di emulazioni tratte dalle letture e dagli studi preparatori. Il lettore, seguendo lo sviluppo diacronico dei testi collocati in quel preciso ordine nella silloge, avverte la percezione umana del tempo e proietta la coscienza dell’io cogitante nella cangiante realtà, della quale tanto l’autore quanto il lettore costituiscono i personaggi di un dialogo sotteso. Gli intervalli, costituiti dalle diversità delle situazioni, ora si accorciano, ora si dilatano, ora si annullano, fagocitati dalla spiritualità del moto, che eleva l’animo sempre più in alto, lontano dalla contingenza strettamente terrena.

Con i versi il Poeta come uomo parla all’uomo e, mediante l’obiettiva percezione del tempo, gli manifesta il frutto della sua mente. Il passato, in questo caso, viene relegato nel mondo dei ricordi, derivati dal vissuto. Alla brevità del presente, che consiste nella comprensione e nella lettura reale degli eventi secondo il linguaggio adottato dallo scrittore, subentra necessariamente il futuro, il quale con la logica previsione e proiezione di progetti intellettuali, sia razionali che passionali, guida il Poeta verso mete trascendentali, pur nella loro contingenza.

I diversi eventi, che la Sibilla pronunciava dal suo antro e preannunciava con lo sguardo rivolto al futuro, sono raccolti da Enzo Bacca, riordinati, riproposti in una sequenza fenomenologica, destinati a incidere in maniera profonda sulle coscienze. Alla soggettività locale, nella naturale e apparente coincidenza del tempo con lo spazio, subentra a poco a poco e prende coscienza la ciclicità, con la quale determinati eventi si ripetono e prendono corpo nella stesura della lirica.

Da quanto accennato il percorso poetico di Enzo Bacca non è sempre illuminato dalla luce della gioia, sovente è lacerato da strazianti costatazioni, che si affiancano e si sovrappongono alle gioie della vita e dell’Amore. Mediante una visione unitaria della realtà, il Poeta cerca di superare la frammentarietà della vita, per ricomporre il tutto in un unico ideale, dato dalla materia e dalla forma, compattate dall’ens rationale, che con la logica cerca di organizzare quanto travaglia il suo spirito. In questo quadro dai tratti decisi e dai contorni sempre sfumati si inserisce la natura con i suoi colori, con i suoi palpiti, con la sua ciclicità: alla gioia della primavera e dell’estate si affianca la tristezza dell’autunno e dell’inverno; al profumo della ginestra subentra il livido odore di erbe putrefatte.

Il canto del Poeta sgorga dalla muta e sofferta quotidianità, dallo scorrere del tempo, sempre lo stesso e diverso, dalla vita consuetudinaria, che, non di rado, produce visioni di sogni mai avverati eppure captati e messi in versi in momenti di intima tensione lirica, di inappagati aneliti verso lidi rasserenanti, di slanci tarpati dalla trita monotonia del giorno, che nasce, scorre e tramonta sempre nello stesso modo. In questo flusso continuo il lento scorrere delle ore, scandite dal ritmo sempre vario e diverso delle parole e del verso costituisce l’io esistenziale del Poeta, che si infutura in un archetipo pluridimensionale costituito da lessemi, figure, suoni, colori. Qui Enzo Bacca trova la vitalità, incontra Eros nelle chiare ed allusive descrizioni della donna, che si mostra affacciata alla finestra oppure uscita dalla mia costola … Eva generata dal mio ventricolo; è quell’anima candida, che susurra:

         aprimi come melagrana matura

         la notte svela la porta del risveglio

         portami nel bosco delle fragole…

La breve pericope è attraversata dalla vitalità e dall’energia descrittiva mossa da Eros; sprigiona una pacata e serenante sensualità, che si spegne a poco a poco, come sugli argini / fresca brezza dorata, ricordami / il posto esatto dove attraversano le nutrie. Il verso, chiuso da lessema sdrucciolo, conduce il lettore verso un punto indeterminato, che converge verso il luogo dove Eros trova se stesso, il pieno completamento e appagamento di sé.

In questo tema simbolico si scorge chiaro il topos classico del viaggio verso porti lontani e sconosciuti, dove il Poeta può con maggior passione e ardore interiore sentirsi dire: sulla soglia aprimi ancora germoglio di sposa.   Qui il lettore trova fuga e partenza, volo e quiete in un sapiente gioco di parole, di luci e di ombre. Tutta la lirica, come tante altre, è scandita da una sommessa e sognante barcarola, al chiaro di luna. Nel ritmo lento e cadenzato, scandito dai colpi di remi sull’acqua, il Poeta culla i suoi sogni, immerge il lettore in un locus amoenus dove spazio e tempo costituiscono un’unica dimensione, nella quale Psiche ed Eros respirano all’unisono in una serena e rasserenante sequenza cromatica. Presente e futuro scandiscono colpi, che trovano il loro riverbero nell’ego cogitans, fenomenologicamente inteso. L’ego cogitans e, nello stesso tempo, cupiens induce il Poeta ad esclamare meravigliato davanti all’incantevole volto di Sibilla:

Come sei bella Sibilla affacciata alla finestra

         in attesa della mia testa scura.

         La ginestra di fronte ondeggia bionda,

         gialla la camera dei sogni, scura

         la pialla del falegname intaglia croci.

Il sogno, a lungo cullato, diventa realtà davanti allo sfolgorio degli occhi, dei colori, dei profumi emanati dai fiori e dei rumori provenienti dal vicinato. È, questo, un idilliaco quadretto leopardiano, che Enzo ripropone in chiave moderna, distante dagli schemi del recanatese: di Leopardi, però, coglie e porge al lettore la chiave di lettura, per dipanare la tramatura e connettere i fili all’ego cogitans e cupiens nel tripudio calcolato dei colori, chiusi dal roco e ripetuto fruscio della pialla sul legno. L’attesa, dilatata e dilazionata da la stalla l’ovile l’asinaia, fertile l’aria di latte, in maniera inaspettata si chiude, riprendendo, per metà, il verso incipitario: come sei bella Sibilla in penombra / vestita di camelie.

In questi brevi riferimenti vibrano con tutto il loro potere evocativo gli elementi primordiali, che, come essenze profumate, risvegliano sentimenti, angosce, timori, speranze. Nella tensione semantica diventano simboli catartici di una palingenesi vicina, destinata a restaurare e ripristinare quanto nel corso della storia l’Uomo ha rotto, corrotto, disviato dal primigenio disegno divino. Insieme con questa realtà l’ens cogitans avverte la sua impotenza e cerca di ricostruire l’armonia perduta nel fecondo rapporto interpersonale, nel quale Venere ed Eros incarnano l’ens homo nella dualità femmina-maschio, nella quale entrambi donano e ricevono. Nella ricostruzione dell’unità primigenia, nessuno dei due è oggetto di piacere per l’altro, ma entrambi nella purezza dell’Amore costituiscono, l’edonè, il piacere psico-fisico, cui ogni essere tende per natura.

Sotto questo particolare aspetto vivo è in Enzo Bacca il concetto lucreziano della voluptas, che strisciante, ma non troppo, informa la maggior parte delle liriche contenute in Sibilla e costituisce nella sua naturale soddisfazione la chiave di lettura, che consente di cogliere nella sapiente disposizione lessematica l’intimo fremito della natura, diversa per lungo tempo individuo, ma fondamentalmente sempre la stessa, dalla sua apparizione sulla terra.

Nella sostanziosa raccolta Bacca pone in giusto equilibrio la cultura classica e quella recente, spesso d’avanguardia. La forma, come il contenuto, che sostanzia la lirica verso dopo verso, è sempre controllata nella sapiente architettura tanto lessematica quanto sintagmatica. L’artiere del verbum non rimane invischiato nelle panie della facile sciatteria d’una verbigerazione d’effetto, ma eleva il tono parola dopo parola, verso dopo verso, per veicolare alla fine un preciso messaggio, che, non di rado, diventa stimolo di ricerca esoterica, finalizzata al perseguimento d’una forma d’arte esemplare, fruibile da chiunque sia fornito di particolari stimoli, in grado di percepire gli intimi sussulti d’una Natura, che, sotto non pochi aspetti, si presenta ancora incontaminata.

L’assenza della metafisica di stampo platonico-agostiniano non significa che Enzo Bacca abbia rinunciato o rinnegato quanto nel suo ego cogitans e, soprattutto, inquirens costituisce e costruisce il fulcro della ricerca e della sua entità e identità poetica. Nella lirica la Physis, aristotelicamente intesa, non è sufficiente a trasmettere i suoi fremiti voluttuosi alla Psyche se non si sottende quel trames extrasensoriale, che trascende la mera fisicità del corpo, dei colori, della natura. Si riscontra, in linea di massima, una metafisica ancora allo stato primigenio, immediata, inesprimibile per l’immediatezza e la semplicità tanto dell’approccio quanto del contatto. Proprio questa elementare metafisica permette al sinolo uomo-donna di formare nel particolare momento e incanto dell’eros, inteso come sublimazione della psyche, quell’ens unicum, verificatosi, secondo la narrazione biblica, nel giardino dell’Eden. La sublimazione si rinnova ogni qualvolta avviene il miracolo dell’incontro e della fusione sensibile, ogni qualvolta il fremito della voluptas, mediante la fisicità del corpo, giunge alla psiche e la trasforma in fornace, che fonde la dualità e la riduce all’unum. Cosciente d’essere in possesso d’una metafisica elementare, in Qualcosa mi appartiene Bacca può scrivere:

C’è qualcosa che mi appartiene

         sotto la tua vestaglia nuda.

         Maglia che ti eternai una sera fredda-

         Quella stoffa lanina che t’avvolge

         è pelle mia…

La vitalità della descrizione è pregna di indomita energia, che dischiude lampi di vitalità, i quali, insiti nella psyche, informano pensieri, gesti, desideri, e invitano a scoprire quanto di personale e pretenzioso si cela sotto la stoffa lanina; a raggiungere la meta agognata tanto da chi narra, quanto da chi ascolta e cela sotto l’involucro il reciproco desiderio e del dono e dell’accettazione.

Saldamente ancorato alla fisicità dell’ens, Enzo Bacca in rari momenti si abbandona alla trascendenza sic et simpliciter intesa: la sua poesia, infatti, trae vita dalla fisicità della Natura, cui rende il naturale tributo, quando la richiama nei suoni, nei colori, negli scrosci dell’acqua o nelle folate di vento, che attraversa il fogliame di un pioppo o di un tiglio e si perde in lontananza, verso l’infinito.