IL TRIONFO DELLA GENTILEZZA:

IL MELODRAMMA DI ROSSINI TRAMUTA ANGELINA IN CENERENTOLA
di Michela Mercuri

In un mondo che «fugge, et non s’arresta una hora», incalzato dal martellante ticchettio di un orologio impazzito, affiora l’urgente desiderio di disinnescare le lancette e rintanarsi in un’oasi risanatrice, scintillante di pensieri, lettura, arte, poesia.

Senza scomodare Seneca e le sue imperiture sententiae, o Nietzsche, il quale paragonava la gentilezza a un’erba terapeutica per i rapporti umani, basterebbe semplicemente ricordare che, in fondo, siamo i variegati tasselli di un portentoso mosaico. È nella naturale dolcezza dell’incastro che si cela la vera forza di ognuno di noi. «Dentro di te è la fonte del bene, che può zampillare sempre se non smetti mai di scavare» scrive nel II secolo Marco Aurelio (VII, 59), l’imperatore filosofo. Ed è ancora così, ce lo insegna la letteratura. La gentilezza è talmente potente, nella sua semplicità, che al lieto fine «ratto s’apprende». Basti pensare all’epilogo di una favola che ha incantato generazioni di bambini, e alla sua magnanima eroina. È la gentilezza che ha traghettato Cenerentola nei vari angoli del mondo, oltre le onde del tempo, ad annunciare a gran voce la sua morale. Cambiano i nomi, i personaggi, gli abiti e, in alcune versioni, addirittura la scarpetta, ma il lieto fine non manca mai. Non potrebbe essere altrimenti, perché la gentilezza, almeno in un universo ideale costellato di parole e musica, trionfa sempre, come suggerisce il titolo dell’opera lirica che Gioacchino Rossini dedicò proprio al personaggio di Cendrillon.

Abbozzare lo stemma codicum della storia di Cenerentola, fino a scovarne l’archetipo, è estremamente complesso, poiché le prime testimonianze fluttuano tra le antiche piramidi del faraone Amasis e le acque cristalline del Nilo, al tempo della XVI dinastia. I colori della storia e quelli della leggenda si amalgamano nelle avventure, tramandateci prima da Erodoto, poi da Strabone e Claudio Eliano, di Rodopi. La fiaba, appresa dallo storico greco durante il suo soggiorno in Egitto, rievoca le peripezie di una schiava, o un’etèra, dal nomen loquens (Rodopi significa “guance di rosa”), la quale ricevette in dono, come ricompensa per la sua affabilità, un paio di pantofole di oro rosso che la condussero dritta tra le braccia del faraone. Nessuna fata, niente zucca e carrozza, non ci sono matrigne arriviste e sorellastre tronfie. La fede prende il posto della magia: è l’intervento di Horus, tramutato in un falco, a fa sì che «il sogno realtà diverrà.» Il dio svolge funzione analoga a quella di Alidoro nel melodramma rossiniano.

Frammenti dell’apologo di Rodopi fanno il giro del mondo, riversandosi nel Vasetto magico persiano, nella russa Zolushka, nell’africana Natiki, nell’inglese Peldicenere o nella favola cinese di Ye Xian e il suo sandalo d’oro. In Italia, la prima Cenerentola è Zezolla, protagonista di una novella del Pentamerone, opera seicentesca di Giambattista Basile. In queste vesti, tuttavia, la bistrattata fanciulla, lungi dal sopportare passivamente la sorte avversa, si rende artefice del proprio destino e, istigata dalla “maestra da cucire”, assassina la matrigna a sangue freddo. Il lieto fine arriva, ma esige una scia di azioni riprovevoli. Più aderenti all’immaginario collettivo la Cendrillon di Perrault e l’Aschenputtel dei fratelli Grimm.

Quella di Cenerentola apparve la storia perfetta da musicare quando, nel dicembre del 1816, a Rossini fu commissionata un’opera per il Teatro Valle. Lavorare per le scene romane non era, all’epoca, compito facile; bisognava, infatti, scegliere un soggetto che, oltre a essere noto al pubblico e malleabile drammaturgicamente, non fosse avversato dalla rigida censura papalina. Il librettista, Jacopo Ferretti, si ispirò non solo alla letteratura fiabesca ma anche, e soprattutto, a quella operistica, attingendo dalla Cendrillon di Charles- Guillaume Étienne (1810) e ad Agatina ossia la Virtù ricompensata di Stefano Pavesi (1814). Il fascino dell’intreccio spinse il compositore ad accettare la collaborazione del poeta. Il 25 gennaio del 1817 il nuovo melodramma fu presentato in teatro. La “prima donna” fu Geltrude Righetti Giorgi, il contralto che aveva interpretato, l’anno precedente, il ruolo di Rosina. La reazione del pubblico fu tiepida. Pur encomiando la sintassi rossiniana, infatti, gli spettatori non gradirono a pieno l’esecuzione dei cantanti, i quali, secondo la testimonianza di Ferretti, erano troppo agitati a causa della preparazione turbinosa; Rossini stesso l’aveva definita «opera di pochi giorni».  Le recite successive, al contrario, riscossero un grande successo, al punto che, per un periodo, la Cenerentola, valicati i confini nazionali, divenne addirittura più celebre del Barbiere di Siviglia.

Il sipario si apre su un’antica sala del castello di Don Magnifico, barone di Montefiascone, padre di Clorinda (soprano) e Tisbe (mezzosoprano), e patrigno di Angelina (contralto). Il ruolo di antagonista, dunque, slitta dalla matrigna cattiva della letteratura fiabesca all’arrampicatore sociale che dispiega tutti i mezzi in suo possesso pur di procacciare titoli e quattrini. La sventurata Cenerentola, asfissiata dalle faccende domestiche, è costretta ad assecondare le frivolezze delle sorellastre, le quali si prodigano per un unico scopo: accaparrarsi un marito ricco e facoltoso che consenta loro di «imprinciparsi». La fortuna bussa alla porta, pungolata da Alidoro (basso), precettore di don Ramiro e saggio filosofo, che, sotto mentite spoglie, chiede «un tantin di carità.» La sola a soccorrerlo è Cenerentola la quale, scusatasi per l’indigenza che la attanaglia, manifesta al mendicante la sua vera natura:

«Il core in mezzo mi spaccherei per darlo a un infelice».

Per il filosofo non c’è più ombra di dubbio: il nembo cinereo mai potrà eclissare l’altruismo, il garbo e la sensibilità che sfavillano in un cuore gentile. La povertà è custode di un’inestimabile ricchezza; sotto i cenci si annida la vera nobiltà, l’unica degna della corona. Si innesca allora un raffinato e divertente gioco di travestimenti ed equivoci. A farne le spese, oltre alle fatue sorellastre, il borioso don Magnifico, il quale già assapora i privilegi dell’agognata ascesa sociale, pavoneggiandosi nel suo mantello color ponsò, ricamato con argentei grappoli d’uva.

Ma se il sogno di Angelina è meritevole di realizzazione, quello del barone non può che frantumarsi nello scontro con la realtà che, nel mondo rossiniano, va ben oltre la parvenza, come rammenta Alidoro nella settima scena del I atto.

«Il mondo è un gran teatro,

siam tutti commedianti,

si può fra brevi istanti

carattere cangiar.

Quel ch’oggi è un arlecchino

battuto dal padrone,

domani è un signorone,

un uomo d’alto affar.

Tra misteriose nuvole

che l’occhio uman non penetra

sta scritto quel carattere

che devi recitar.»

 

Il principe Ramiro e il cameriere Dandini, infatti, scambiatisi vesti e ruoli, assistono divertiti al comico evolversi degli eventi. Negli occhi di entrambi, soprattutto in quelli del nobile, la fiamma di Cenerentola attecchisce, avvampa, e non c’è possibilità di estinguerla. La preziosità di questo sentimento sfiora, a distanza di secoli, la poetica stilnovistica: «Al cor gentil rempaira sempre amore.»

Si potrebbe, all’apparenza, scorgere un paradosso con il dramma giocoso, il genere teatrale scelto per inglobare il melodramma. In realtà, a ben vedere e, parallelamente, a ben ascoltare, il capolavoro rossiniano è molto più di questo. Certamente gran parte della storia si inserisce in quella meravigliosa tradizione che, inaugurata da Carlo Goldoni, si era consolidata sulle scene italiane. Alcuni personaggi, tuttavia, con i relativi interventi musicali, sembrano sgorgare da una sorgente diversa. L’illuminato Alidoro, ad esempio, nel suo umanizzato ruolo di deus ex machina, potrebbe inserirsi, con naturalezza, in un’opera seria. Una riflessione analoga abbraccia i duetti degli innamorati che, in forte contrasto con la cornice, cantano emozioni sincere, per nulla giocose. Al contrario, Clorinda e Tisbe riesumano, a tratti, i fantasmi di Magdelon e Cathos, le due cugine che, ne Les Précieuses ridicules di Molière, tentano di accedere alla Parigi aristocratica. Più complesso il personaggio di Angelina, che assorbe le peculiarità della tradizionale Cenerentola, ma al contempo le supera e le personalizza. La presentazione al pubblico avviene tramite un meta-canto che la denota immediatamente come una sognatrice. Gli ottonari e i quadrisillabi tronchi conferiscono alla melodia il tono di una filastrocca.

 

«Una volta c’era un re,

che a star solo s’annoiò;

cerca, cerca, ritrovò!

Ma il volean sposar in tre.

Cosa fa?

Sprezza il fasto e la beltà,

e alla fin scelse per sé

l’innocenza e la bontà.

La la là

li li lì

la la là.»

 

La storiella che Cenerentola vagheggia flemmatica, rannicchiata accanto al fuoco, intenta a far bollire una cuccuma di caffè, tratteggia un’inconscia prolessi. Una volta c’era un re, cavatina in Re minore articolata in sole venti battute, non è altro che anticipazione del sogno destinato a diventare realtà. L’iniziale compostezza musicale, infatti, aderente alla condizione del personaggio, sboccia, prima della ripresa e sul verbo «cantar», in fioriture che, tipiche della scrittura rossiniana, profetizzano la speranza di un’imminente rivincita. Non a caso, Angelina non si esprime con l’angelico timbro di un soprano leggero, ma sfoggia i colori e il carattere di una voce contraltile. La mansuetudine non corrisponde, pertanto, all’ingenua accettazione del proprio destino. Angelina sa trovare in sé la forza per contrastare le ingiustizie, anche se è lontana dalla Rosina di Una voce poco fa, con la quale condivide il carattere solo per la prima parte della cavatina.

 

«Io son docile
Son rispettosa
Sono obbediente
Dolce, amorosa
Mi lascio reggere
Mi fo guidar.»

Non concepisce mai, invece, la reazione determinata e vigorosa, cantata dalla protagonista del Barbiere nelle battute successive della cabaletta.

«Ma se mi toccano
Dov’è il mio debole
Sarò una vipera, sarò
E cento trappole
Prima di cedere
Farò giocar.»

Quando ormai la freccia di Cupido ha raggiunto il bersaglio, ad Alidoro non resta che imprimere un’accelerazione agli ingranaggi, in modo che la storia accarezzi la favola. La magia si serve unicamente di quella che Boccaccio definirebbe “industria”. Nonostante le potenzialità offerte dal melodramma, infatti, Rossini e Ferretti scelsero di non dare alla luce creature fantastiche o divine, spiegando ai «cortesi fratelli drammatici» che se Angiolina

«non comparisce con la compagnia di un mago operatore di fantasmagoria, o di una gatta che parla, e non perde nel ballo una pantofola: (ma più tosto consegna uno smaniglio) come sul teatro francese, o su qualche vasto teatro italiano, ciò non deve considerarsi un crimenlaesae, ma più tosto una necessità nelle scene del teatro Valle, ed un rispetto alla delicatezza del gusto romano, che non soffre sul palco scenico, ciò che lo diverte in una storiella accanto al fuoco.»

Un braccialetto, dunque, sostituisce la celebre scarpetta di cristallo nell’agnizione conclusiva. Nell’ultima scena del secondo atto, quando l’ordine morale è stato ristabilito, l’amore ha sconfitto le angherie e la gentilezza ha conquistato il suo lieto fine, il coro riassume efficacemente l’intero melodramma:

«Cade l’orgoglio in polvere, trionfa la bontà.»

Cenerentola ha finalmente sprigionato la sua forza, con le parole e con il canto. Non esegue più canzonette ma si esibisce in pezzi complessi e virtuosistici, che confluiscono nel rondò finale Nacqui all’affanno e al pianto -Non più mesta accanto al fuoco, uno scoppiettante spettacolo pirotecnico vocale.

Il perdono, immancabile ingrediente di un animo gentile, plana nel cuore della protagonista, prima che il sipario cali su una risoluzione positiva, anche se irrorata da una vena malinconica. Cenerentola può sposare l’uomo dei suoi sogni e fuggire dalla miseria, ma non ottiene il riconoscimento filiale da parte di Don Magnifico.

«Né mai m’udrò chiamar la figlia vostra?» (II, X)

Il «vissero per sempre felici e contenti» non può essere totalizzante, perché Angelina è un’eroina del melodramma, non una principessa delle favole.

Cecila Bartoli – La Cenerentola – Non piu mesta Vedi video